III domenica di Quaresima
A- Chi è Dio per noi? Convertirsi da una idea
sbagliata di Dio
Dopo il
deserto delle tentazioni e la montagna della trasfigurazione torniamo nei
luoghi abituali della nostra vita dove siamo chiamati a confrontarci e
scontrarci con tanti eventi negativi, con fatti di “cronaca nera”.
Ai tempi di
Gesù (ma ancora oggi) si pensava che le sciagure dovessero capitare a chi se le
meritava: se io sono un buon cristiano, Dio come può non proteggermi? Eppure
quei due eventi raccontati a Gesù parlano di luoghi sacri (il tempio e la
piscina di Siloe) dove l’uomo dovrebbe essere particolarmente protetto. Perché non
è avvenuto? Perché quelle persone si erano meritate quella fine? Sono più
peccatori degli altri?
E le vittime
innocenti di terremoti, incidenti, malattie hanno meritato questo? Che colpa
può avere un bambino piccolo di una disgrazia o malattia?
La risposta
di Gesù è netta: non c’è alcun rapporto tra colpa e disgrazia, tra peccato e
sventura. Dio non usa questi eventi per punire, essi fanno parte della
finitezza della creazione, dell’evoluzione naturale della natura (a cui si
aggiunge il male compiuto dall’uomo: il potere dei romani che non si fermano
neanche davanti al sacro e magari la negligenza dei muratori che hanno
calcolato male o hanno cercato di risparmiare nel costruire la torre).
Aggiunge
però: “se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”. Cosa
vuol dire con queste parole così dure?
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CONVERTIRSI= tornare a Dio, pensare e agire come
Dio: non dobbiamo cambiare religione, ma convertirci da una religione vissuta
in modo superficiale, con indifferenza, con molti peccati, ad una adesione a
Dio piena, autentica, coerente. E la prima cosa da verificare è: che idea ho
di Dio? Pensiamo alla parabola del Padre buono e dei suoi due figli: uno,
il minore, sente il padre come un ostacolo alla sua voglia di libertà e di
divertimento; l’altro sente il padre come un padrone che cerca di tener buon
lavorando sodo per lui, mostrandosi come figlio obbediente.
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Nessuno dei due ha capito che il padre li ama in
quanto figli, non in quanto bravi, che desidera la loro felicità e la loro
libertà e non si pone come un ostacolo a tutto ciò, piuttosto come un alleato
che ci libera dalle nostre schiavitù e ci apre la strada verso la vera libertà
e la pienezza di vita.
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Convertirsi significa anche credere che Dio non
manda disgrazie, non ci mette alla prova (la nuova traduzione della Bibbia ha chiarito
anche il senso di “non ci indurre in tentazione” come un “non abbandonarci
nella tentazione”: Dio non ci tenta, ma è l’unico che può donarci la forza e la
luce per superare i momenti di crisi e di tentazione nei confronti del male).
Nei casi di disgrazia nostra o dei nostri cari non ci lamentiamo forse con Dio come
ne fosse il responsabile? Non ci capita di dirgli: perché proprio a me? Cosa ho
fatto di male? O quasi di lamentarci perché in questi casi Dio non ha fatto il
proprio dovere o si è dimenticato di noi?
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Quanta fatica e quanto tempo passa prima di
arrenderci e affidarci a Lui perché ci doni la forza per affrontare la
disgrazia o la malattia. Dio cerca un varco nel nostro cuore indurito e chiuso
per farci sentire il suo sostegno, la sua vicinanza, la sua compassione che lo
muove a misericordia.
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Ricordo il racconto di una signora anziana che
aveva affrontato con fede la malattia e la morte del marito: non pensava di
poter avere tanta forza e tanta pazienza; non pensava che quella situazione
potesse avvicinarli così tanto e diventare un momento particolarmente intimo e
prezioso del loro matrimonio. Non erano mai stati così in comunione come in
quegli anni della sua malattia.
B- Dio è colui che è paziente con noi: la
parabola del fico senza frutti
Ecco invece chi è Dio: è come un
contadino paziente e premuroso che non vuole separarsi dal suo fico che da
diversi anni non porta frutto. La “giustizia” e la ragione umana vorrebbero
tagliarlo, perché sfrutta inutilmente il terreno. La misericordia e la ragione
divina vuole dare un’ennesima possibilità, non si arrende, è pronta a lavorare
ancora con cura ed amore per concimare e arricchire quell’albero che gli sta a
cuore ancor più dei frutti che desidererebbe potervi mangiare. E’ una pianta
inutile, ma Dio non cerca in noi un utile: ci ama gratuitamente e continua ad
amarci anche se noi non contraccambiamo al suo amore o lo rifiutiamo. “Per lui
il frutto possibile di domani conta più della mia sterilità di oggi” (E.
Ronchi). Dio crede in me, nelle mie potenzialità.
Ma arriverà il giorno in cui quest’albero
morirà e se non avrà ancora portato frutto sarà stato un albero inutile,
sterile, che non ha mai vissuto per il fine per cui è nato. “Se non vi
convertirete morirete tutti allo stesso modo” sta allora a dirci che la cosa
più importante è dare un senso alla nostra vita, perché la nostra vita non
finisca in modo improvviso e ci trovi improduttivi, sterili, inutili. Dare
frutto significa dare significato alla nostra vita. Il frutto è l’amore vissuto
concretamente. Non aver mai dato frutto significa non aver mai amato, non aver
mai vissuto. Allora la vita eterna non si aprirà per noi, perché non abbiamo
neanche mai avuto una vera vita.
B1- Dio è inafferrabile, ma è colui che libera, perché
“è colui che è per noi” (Mosè)
A1- Il rischio di rifiutare l’amore di Dio con
mormorazioni e critiche (San Paolo che usa l’esempio del popolo dell’esodo)
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