martedì 24 novembre 2015

LETTERA DI SAN GIACOMO ALLA NOSTRA COMUNITA’


La recente partecipazione agli esercizi spirituali tenuti a Bose da Luciano Manicardi sulla lettera di Giacomo, mi ha portato a riflettere sulla nostra comunità (ma anche su ogni comunità familiare o parrocchiale). Vi propongo una semplice attualizzazione della sua lettera, arricchita dai commenti di Manicardi, che potrebbe stimolare la nostra vita.

Fratelli carissimi, ho visitato la vostra comunità con gioia, ma non posso nascondere di avervi scorto delle malattie che, se non curate, possono portare alla morte (per lo meno spirituale): l’incoerenza tra la fede che professate e le vostre opere; la litigiosità e le contese nate dal vostro cattivo modo di parlare; l’invidia e il giudizio inclemente che avete nei confronti degli altri fratelli.
So che avete subito molte prove, anche a causa del vostro stesso comportamento. Considerate però che vivere la prova con fede, cioè leggendola in modo nuovo, alla luce di Cristo, produce perseveranza: la prova è l’occasione per far maturare la vostra fede e dunque voi stessi. Siate fermi di fronte alle avversità, non scappate e non lasciatevi schiacciare da esse, ma sopportatele sapendo che la prova sopportata e superata con la vostra perseveranza e pazienza vi conduce alla letizia e a ricevere la corona della vita, cioè la comunione con Dio, che il Signore ha promesso a quelli che lo amano.

giovedì 19 novembre 2015

Gv 18,33-37: solennità di Cristo Re dell'universo (anno B)

Gesù annuncia subito che “il Regno di Dio è vicino”, che è già tra noi. Ne parla come di un seme che sta germogliando e portando frutto e i suoi frutti sono la pace, la comunione, il perdono, la giustizia, l’amore fraterno, l’attenzione nei confronti dei poveri, degli emarginati, dei malati: nel Regno di Dio essi sono i primi cittadini, i preferiti del Re. E fin qui il Re è un’immagine per indicare Dio Padre, l’Onnipotente nell’amore: Lui è il Sovrano che attende di essere accolto, che non si impone, ma si propone. Solo in prossimità della Crocifissione anche Gesù si identifica come Re e viene rivelato, in maniera violenta e derisoria, ma involontariamente profetica, dagli stessi occupanti romani che “regnano” su Israele. I soldati si fanno beffa di lui, lo deridono mettendogli addosso un mantello scarlatto che richiama quello dei re, una corona di spine in testa, chiamandolo con disprezzo “Re dei Giudei”, fino a far mettere sopra la croce un cartello che lo descrive nelle tre lingue principali (quindi per il mondo intero): “Il Re dei Giudei”
Proprio quando Gesù è nel pretorio romano di Gerusalemme, consegnato dai capi dei giudei, si confessa davanti a Pilato “Re dei giudei”, cioè loro Messia, unto e inviato da Dio al suo popolo. Ma attenzione: nel quarto vangelo Gesù è un “Re al contrario”, non ha il potere mondano, la gloria dei re della terra, non si fregia dell’applauso della gente, non appare in una liturgia trionfale. Al contrario, proprio nella nudità di un uomo trattato come schiavo, quindi torturato, flagellato, incoronato di spine, si rivela quale unico e vero Re di tutto l’universo, con una gloria che nessuno può strappargli, la gloria di chi ama gli altri fino alla fine (cf. Gv 13,1), di chi sa dare la vita per loro (cf. Gv 15,13), rimanendo nell’amore (cf. Gv 15,9): gloria dell’amore vissuto e dell’amore mai contraddetto[1].

lunedì 13 luglio 2015

I puri di cuore

suor Maria Cristina Cruciani, Avvenire dell'11 luglio 2015

Fin dalle origini ci furono uomini dal cuore puro che camminarono con Dio come Abele, Enoc, Noè... come Abramo, che Dio affinò nella fede perché fosse del tutto pura: gli chiese il figlio affinché Abramo non amasse Dio perché glielo aveva dato mantenendo le promesse, ma perché Dio è Dio. Soltanto per questo! E Abramo seguì il Signore: «Cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1). Poi ci fu Giacobbe: «Ho visto Dio e sono rimasto vivo e chiamò quel luogo Penuel», volto di Dio (Gen 32,31).
Giacobbe non è più l’imbroglione ma Israele, riceve come una nuova identità, diremmo un cuore nuovo dall'incontro trasformante con Dio e ne porta i segni nel corpo: zoppicava quando oltrepassò Penuel. L’incontro con Dio, vedere Dio lascia il segno e nulla è più come prima. Quando Giacobbe-Israele ha il cuore guarito e ha visto Dio può incontrare suo fratello.
La struggente nostalgia del volto di Dio si traduce per Mosè in supplica ardita: «Mostrami la tua gloria» (cfr. Es33,18). Allora Dio rispose a Mosè che neppure lui avrebbe potuto vedere il volto di Dio senza morire, ma accadrà che l’uomo potrà vedere il volto di Dio nel volto umano del Signore Gesù: «Chi ha visto me ha visto il Padre mio» (Gv 14,9) tanto che ormai possiamo anche raffigurare Dio nel volto 'sindonico' del Signore Gesù, splendore della gloria del Padre e luogo ove abita la pienezza di Dio.

sabato 27 giugno 2015

Beati i poveri in spirito

Avvenire, 27 giugno 2015
di ENZO BIANCHI
“Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Aprendo con queste parole il discorso della montagna, Gesù si ricollega intenzionalmente ai “poveri del Signore” della tradizione biblica, gli‘anawim, i “curvati”, quel “resto di Israele” umile e povero che confidava solo nel Signore Dio (cf. Sof 3,12). Questo abbandono fiducioso in Dio si era progressivamente focalizzato nell’attesa della venuta redentrice del Messia, l’Inviato definitivo di Dio, il Cristo: in tale contesto appare Gesù fin dalla sua nascita, come testimonia il vangelo dell’infanzia secondo Luca (cf. Lc 1-2). E in Maria la speranza dei “poveri in spirito” di tutto Israele trova il suo compimento: l’umile figlia di Sion ne è consapevole quando scioglie il canto del Magnificat, rivolgendosi a Dio che “ha rivolto lo sguardo alla bassezza e all’umiliazione della sua serva” (Lc 1,48).

venerdì 22 maggio 2015

IL PADRE DI GESÙ E PADRE NOSTRO È MISERICORDIA E PERDONO

Luis A. Gallo
(NPG 99-07-54)
Una delle manifestazioni più vistose della tenerezza di Dio è il suo atteggiamento di misericordia verso i peccatori. Gesù, stando alle narrazioni dei vangeli, fece toccare con mano più di una volta e in maniera molto commovente tale tenerezza accogliendoli e dando loro il perdono nel suo nome. 
Gesù sconvolge per la sua misericordia
Ci sono nei vangeli dei racconti che commuovono in maniera particolare. Tra essi, due in cui Gesù ha a che fare con delle donne, e per di più con delle donne peccatrici.

domenica 17 maggio 2015

Il Figlio: rivelazione di Dio come misericordia

Storia dell’amore di Dio
o il «mistero della Trinità» /2
Carmine Di Sante

Il racconto neotestamentario 
Passando dal racconto del primo Testamento o Antico Testamento a quello del secondo Testamento o Nuovo Testamento, si nota uno spostamento di accento che è necessario richiamare. Nelle scritture ebraiche Dio si rivela attraverso una pluralità di figure o personaggi che si succedono diacronicamente in un arco di tempo quasi millenario che va da Abramo a Mosè, a Salomone, a Davide, ai profeti, fino ai saggi e ai sapienti. Anche se tra queste figure eccelle, per la sua importanza, Mosè, il profeta al quale Dio parlava faccia a faccia (cf Dt 34, 10) e colui al quale viene attribuita la stesura stessa del Pentateuco (per questo nella tradizione ebraica i libri del Pentateuco sono considerati in assoluto i più importanti, a differenza della tradizione cristiana per la quale ad essere ritenuti tali sono i libri profetici), ciononostante la rivelazione di Dio nel primo Testamento si dispiega attraverso una pluralità di messaggeri e di testimonianze che, solo nel loro insieme e attraverso la molteplicità delle loro oggettivazioni narrative e testuali, disvelano il mistero di Dio e del suo amore.

sabato 16 maggio 2015

Gli insegnamenti di Gesù sulla preghiera - Enzo Bianchi

Gesù pregava. Egli apparteneva a un popolo che sapeva pregare, il popolo che ha creato il Libro dei Salmi e ha trovato nella pratica di preghiera di Israele la norma che ha informato la sua stessa fede. La sua preghiera liturgica era improntata a modi e forme della preghiera giudaica del tempo, com'era vissuta nella liturgia sinagogale e nelle feste al Tempio di Gerusalemme (...) E' da tale fonte che Gesù ha tratto ispirazione per la sua capacità creativa. (...)
Grande rilievo ha, inoltre, la preghiera personale di Gesù. Il suo ministero pubblico è, infatti, intervallato da frequenti "ritiri", sopratutto durante la notte o al mattino presto, per pregare: «in luoghi deserti», «in disparte»,
«da solo», «sul monte» (Mt 14,23; Mc 1,35; 6,46; Lc 5,16; 9,18.28), in particolare, «secondo il suo solito, sul monte degli Ulivi» (Lc 22,39). Luca è l'evangelista che inisiste maggiormente sulla preghiera di Gesù, collegandola ai momenti salienti della sua vita e della sua missione (...).
Quella di Gesù è una preghiera personalissima, in cui egli si rivolge a Dio chiamandolo "Papà", con la sfumatura di particolare intimità e confidenza insita nel termine aramaico Abba: essa è porta d'accesso al mistero della sua personalità, tutta sotto il segno della filialità nei confronti del Padre amato. E a Gesù, che prega con insistenza e perseveranza, il Padre risponde entrando con lui in dialogo: «Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato» (Sal 2,7; Eb 1,5; cfr. Mc 1,11), parole che trovano nell'oggi della resurrezione il loro compimento (cfr. At 13, 32-33).

giovedì 14 maggio 2015

VOLTO DI CRISTO, VOLTO PIENO DI MISERICORDIA

Luis A. Gallo
(NPG 2004-08-34)
Continuando con la nostra esplorazione contemplativa del volto di Gesù Cristo, fissiamo ora lo sguardo su di un altro suo tratto, molto caratteristico, che lascia trasparire nitidamente il volto di Dio, il Padre suo e di tutti: quello di essere un volto pieno di misericordia.
L’atteggiamento di Gesù verso i peccatori
Nell’Antico Testamento si può seguire un filone abbastanza consistente che stabilisce una netta separazione tra i giusti, coloro cioè che compiono il volere di Dio manifestato attraverso la Legge di Mosè, e gli ingiusti o peccatori, ossia quelli che non si attengono a tale volere e conculcano la Legge. I primi sono visti come graditi a Dio e da lui benedetti, i secondi come da lui aborriti e perfino odiati (Sal 10,5; Sir 12,6). 
Con frasi abbastanza crude si arriva a dire che “Dio spezza loro i denti” (Sal 3,8), e che “tutti i peccatori saranno distrutti, e la discendenza degli empi sarà sterminata” (Sal 36,38), e ancora che “se i peccatori germogliano come l’erba e fioriscono tutti i malfattori, li attende una rovina eterna” (Sal 91,8). In questi termini il giusto esprime il suo più vivo desiderio: “Scompaiano i peccatori dalla terra e più non esistano gli empi” (Sal 103,35); “Oh, se Dio sopprimesse i peccatori!” (Sal 138,19).

mercoledì 13 maggio 2015

Luca evangelista della misericordia

Elena  Bosetti 

Dante Alighieri definisce il terzo evangelista “scriba mansuetudinis Christi”, ermeneuta e narratore della  “mitezza” del Cristo. Anche oggi molti sono affascinati dal volto di Gesù che traspare dal vangelo di Luca: un Salvatore pieno di bontà, che mostra predilezione per le categorie deboli ed emarginate: donne e bambini, poveri e peccatori (1). Questi aspetti risaltano in alcune parabole indimenticabili ed esclusive di Luca: il buon samaritano, il fariseo e il pubblicano, l’epulone e il povero Lazzaro… Ma è sufficiente per meritargli il titolo di “evangelista della misericordia” (2)? Cosa giustifica la scelta di questo titolo? 

1.  Uno sguardo al lessico

Nel terzo vangelo (3) troviamo sei volte il sostantivo eleos, misericordia; è un dato rilevante in rapporto agli altri due Sinottici: in Mt ricorre infatti esattamente la metà e in Mc è del tutto assente.
Se osserviamo la distribuzione del termine, quando e dove Luca parla si misericordia, non possiamo nascondere una certa sorpresa: 5 su 6 occorrenze sono concentrate nel primo capitolo: 2 volte sulla bocca di Maria nel canto del Magnificat; 1 volta in bocca a Elisabetta che esalta la misericordia di Dio nei suoi confronti, e altre due volte nel cantico di Zaccaria, il Benedictus(4).
Sorprende questa concentrazione del termine nei due primi cantici: la madre di Gesù e il padre di Giovanni celebrano la misericordia del Dio d’Israele: il suo «ricordarsi» della misericordia (1,54), le sue «viscere di misericordia» (1,78) e il dispiegarsi della misericordia divina di generazione in generazione (1,50). La misericordia è il filo d’oro che attraversa il Magnificat e il Benedictus (5).

martedì 12 maggio 2015

Le parabole della misericordia (Lc 15), B. Costacurta

Bruna Costacurta


Vi propongo la semplice lettura di un capitolo bello del Nuovo Testamento che mostra il volto di Dio come Dio buono, che perdona, come Dio Padre. E’ il famoso capitolo 15 del vangelo di Luca. E’ il capitolo delle parabole della misericordia e del perdono che Gesù narra in risposta agli scribi e ai farisei, che si scandalizzavano del fatto che egli accoglieva i peccatori e mangiava con loro. Il capitolo è organizzato con le prime due parabole piccole, molto simili tra di loro, quella della pecora perduta e quella della dramma perduta e poi la grande parabola, molto più articolata, la parabola dei due figli, del figlio maggiore e del figlio minore. Tutto il capitolo è ben pensato; bisogna leggerlo tutto insieme, a cominciare dalle prime due parabole: il pastore con la pecora perduta e la donna che perde la dramma.
Il pastore e un donna, un maschio e una femmina, un modo per dire la totalità. Due personaggi che dicono però il credente in quanto tale. E formano un’unità. Tutto comincia: ‘Allora egli disse loro questa parabola’ e poi ‘questa parabola’ sono le due, come se fossero un unico blocco. E dopo, invece, c’è la parabola dei due figli che comunque riprende la tematica della altre due. È tutto in relazione. Perché dei due figli uno se ne va di casa e l’altro, invece, rimane; e però rimane perdendosi, perché bisogna che poi il padre vada in cerca pure di lui. Questi due figli richiamano in qualche modo le due parabole precedenti: la pecora se ne è andata, si è persa come il figlio minore che se ne va e si perde. La dramma pure si è perduta, però è rimasta dentro casa, come il figlio maggiore che, perso, però rimane dentro casa. Questa tematica del perdere e del trovare è quella che fa da collegamento a tutto quanto, insieme alla grande tematica della festa e della gioia, quando si ritrova quello che si perde. Vediamo da vicino questi due blocchi: le prime due che formano in realtà una parabola, e poi quella dei due figli.

martedì 7 aprile 2015

Gv 20,11-18: ​Il dialogo tra Gesù e Maria Maddalena davanti al sepolcro vuoto - Come nel giardino del Cantico dei cantici

2015-04-04 L’Osservatore Romano
Come prima «stava» insieme alle altre donne e al discepolo amato presso la croce di Gesù così ora «sta» davanti al sepolcro. La sua presenza insaziata, tenace, nel luogo della morte e della sepoltura ricorda anche lo «stare» del testimone Giovanni dal quale prende avvio la storia discepolare (cfr. 1, 35). Il suo «stare», dunque, definisce un arco tra inizio e fine del discepolato storico di Gesù e, al contempo, inaugura l’inizio della testimonianza pasquale del Risorto. Prima dell’incontro con il Risorto, però, lo stare di Maria è caratterizzato da un lutto senza consolazione.
Il racconto giovanneo richiama, a questo punto, la tradizione sulla visione angelica avuta dalle donne (cfr. Matteo, 2-7; Marco, 5-7; Luca, 4-7.23), ma attribuisce a essa tutt’altra funzione. Dalla bocca degli angeli in bianche vesti, infatti, non viene alcun annunzio pasquale. Il dialogo con loro serve perché la Maddalena espliciti nuovamente, stavolta in prima persona singolare, il profondo smarrimento per la perdita del «suo Signore» che essa cerca cadavere («Donna, perché piangi?»). Con la loro presenza, d’altronde, essi esprimono già l’irruzione della vita divina nel luogo della morte. La loro posizione fisica, che evoca quella dei cherubini l’uno di fronte all’altro ai lati del propiziatorio dell’arca dell’alleanza (cfr. Esodo, 25, 17-22; ,6-9; Numeri, 7, 89; i Re 8, 6s), richiama al lettore la verità sul «corpo» di Gesù, «santuario» della presenza di Dio, e il segno promesso del suo rialzamento (cfr. 2, 18-22).

venerdì 13 marzo 2015

Giovanni 3, 14-21: IV Domenica Quaresima - Anno B

Laetare
- Laetare: superata la metà della Quaresima, siamo invitati a guardare con gioia alla meta del nostro percorso: la Pasqua. L’invito alla gioia è espresso in particolare dall’antifona di ingresso, ma anche dai motivi di gioia espressi nelle letture:
- La 1° ci parla della fine dell’esilio: se l’infedeltà del popolo d’Israele l’aveva portato a sperimentare il dolore e l’amarezza dell’esilio, la fedeltà del Signore è tale da liberarlo e richiamare il popolo nella Terra Promessa: Dio utilizza Ciro, il re persiano pagano, perché diventi suo strumento di liberazione. L’ultima parola di Dio non è la morte, ma la vita. Dio non abbandona il suo popolo, anche se infedele!
- Nella 2° lettura San Paolo si rivolge agli Efesini perché guardino a Dio “ricco di misericordia” il quale “per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per il peccato, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati”, cioè gratuitamente, come dono, senza meriti (“perché nessuno possa vantarsene”), “mediante la fede”.
Ed eccoci al Vangelo in cui queste tematiche vengono riportate da Gesù. E’ un brano che non è facile commentare, anche perché non succede nulla, è un monologo di Gesù che ha come ascoltatore Nicodemo, il maestro della legge che viene ad interrogarlo di notte, affascinato da Gesù, ma timoroso di mostrare questo interesse, di prendere posizione.

giovedì 12 marzo 2015

Il cibo nella Bibbia. Enzo Bianchi: ama la terra come te stesso

Avvenire, 13.3.2015, di Enzo Bianchi
Dio ha voluto creare un mondo in cui i viventi potessero, appunto, vivere e quindi potessero nutrirsi. Le prime pagine della Genesi, dove in una sinfonia si tenta di raccontare la creazione, Dio affida all’umanità nella polarità uomo-donna il cibo: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è sulla terra, e ogni albero che dà frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto bella e buona» (Gen 1,29). 

Tutti i frutti della terra sono donati all’uomo ma c’è un’insistenza sull’erba e sugli alberi che fanno seme, rivelando subito che quel seme non è destinato solo a essere mangiato con il frutto, ma può cadere a terra e questa è anche un’azione umana: la semina richiede la cura, la cultura da parte dell’uomo. Questa pagina svela una grande verità: la terra è madre, ci nutre, ma noi dobbiamo esercitare una 'cultura' nel senso più vero, cioè coltivarla. La terra madre ci è data come un giardino da coltivare e, infatti, sta scritto: «Il Signore Dio prese l’umanità e la fece riposare nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15). 

mercoledì 25 febbraio 2015

La Bibbia e la povertà (Ravasi)

Dalla Prefazione di Gianfranco Ravasi a Testimoni della carità nelle periferie umane di monsignor Luciano Baronio (Roma, Edizioni Viverein, 2014, pagine 362, euro 18). 

«Il grido del povero sale fino a Dio, ma non arriva alle orecchie dell’uomo». Così scriveva amaramente un autore dell’Ottocento francese, Félicité-Robert de Lamennais, incrociando a una nota citazione biblica (cfr. Siracide, 21, 5) un’esperienza sociale costante. I poveri, che sono pur sempre i destinatari della prima beatitudine del Discorso della Montagna, sono spesso la base dimenticata della piramide della società. A loro, come sappiamo, Papa Francesco sta dedicando ripetutamente la sua attenzione, i suoi appelli, la sua vicinanza, stimolando la Chiesa a non esitare ad avviarsi verso le strade polverose e misere delle periferie non solo urbane ma anche esistenziali. È stata questa anche la scelta di Cristo che ha voluto come compagni di viaggio privilegiati proprio gli ultimi e gli emarginati.
La prima tavola tematica la riserviamo allora alla realtà della “povertà”, una componente rilevante nelle Sacre Scritture. Ampi strati della popolazione, ai tempi della Bibbia, vivevano in condizioni di disagio sociale. È significativo, infatti, che la stessa legislazione biblica si preoccupi di tutelare il povero, impedendo prevaricazioni e oppressioni: si pensi, a esempio, all’anno giubilare che, con la remissione dei debiti e il ritorno delle terre agli antichi proprietari, tentava di riportare Israele a una sorta di perequazione economica. Il giudice era ammonito di «non far deviare il giudizio del povero che si rivolge a lui nel processo» (Esodo, 23, 6). Ma la realtà ben presto svelava il suo volto oscuro, al punto tale che nella stessa legislazione si doveva far appello alla suprema cassazione divina: il Signore, infatti, era considerato come il go’el, il “difensore”, il “tutore” dell’indigente, della vedova, dell’orfano calpestati e offesi.

lunedì 16 febbraio 2015

Le parabole del Signore

Georges André (1955), http://www.bibbiaweb.org/ga/ga_parabole.html

1. Semina e mietitura

"Il seme è la parola di Dio" (Luca 8: 11)
La vita
La legge diceva: "Fa questo e vivrai". Ma l'uomo è incapace di "fare"; agli occhi di Dio, egli è morto (Efesini 2). E' per questo che il divino Seminatore è uscito a seminare. Egli reca la parola di vita, quella sola parola che rigenera (1 Pietro 1: 23); genera (Giacomo 1: 18); produce la nuova nascita (Giovanni 3); e ci fa partecipi della natura divina (2 Pietro 1: 4).

          1.1 La semina

             a) Il seminatore

(Matteo 13; Marco 4; Luca 8)
Uscito dalla "casa" (Israele, coma la legge l'aveva costituito), Gesu si siede vicino al "mare" (figura dall'intera umanità): egli vuole recare alle folle qualcosa di completamente nuovo.
Questo seme - la Parola di Dio - cadrà su quattro terreni diversi:
- la strada: il cuore indurito dall'abitudine e dalla distrazione, come un luogo in cui vi si passa e ripassa continuamente;
- la roccia: il cuore duro, inconvertito, che ha soltanto l'apparenza della vita, nella quale la semenza non ha messo radice;
- le spine: il cuore non "sgombro", in cui l'erba cattiva che vi cresce soffocherà la buona semenza;
- la buona terra: il cuore che si è lasciato "lavorare" da Dio, e nel quale, se vi sarà del frutto, ciò non sarà grazie alla qualità del terreno, ma solo grazie alla semenza!

giovedì 12 febbraio 2015

Marco 7,24-30: Una straniera intraprendente. La donna che convertì Gesù

Lidia Maggi
donnacananea
La narrazione evangelica non teme di riferire di un incontro che ha aiutato il Messia a mettere a fuoco, con maggior chiarezza, la sua stessa vocazione. Certo, viene ricordata insieme la fatica di quel dialogo, segnato da irrigidimenti e incomprensioni; tuttavia, il lettore vi scorgerà l'attestazione di un autentico confronto, dove gli interlocutori, e Gesù per primo, si mettono in gioco fino in fondo e ne escono radicalmente cambiati.
Non viene, invece, ricordato il nome di quella donna straniera, greca e pagana che, mossa da un incrollabile amore materno, osò presentarsi davanti al Figlio di Davide. Ma la sua fede indomabile, la sua fermezza, l'intelligenza con cui seppe tener testa al Messia, saranno per tutti «evangelo».

giovedì 22 gennaio 2015

E la Bibbia accolse lo straniero (Ravasi)

di Gianfranco Ravasi, 22.10.2015, Avvenire

Non è difficile rilevare nella Bibbia, dopo una logica dell’esclusione, una dell’accoglienza, che costituisce l’ambito in cui Dio agisce per portare i figli d’Israele a essergli testimoni tra le genti. Come si è visto, Dio, per educare il suo popolo a non sentirsi un privilegiato, invia profeti, che invitano ad aprire il cuore e le braccia a tutti, e sapienti, che trovano i semi di verità dispersi in tutte le culture.

A proposito dell’accoglienza rituale prendiamo ad esempio una pagina cruciale della Bibbia come il Decalogo. Cosa si legge nel comandamento del sabato? Che il riposo sabbatico deve essere praticato anche dal forestiero che dimora presso l’israelita (Es 20,10); anche lui ha diritto al riposo con l’ebreo. In alcuni passi legislativi dell’Antico Testamento, come nei libri del Levitico (16,29) e dei Numeri (9,14), si andrà oltre, affermando che anche lo straniero ha diritto a far festa nel giorno di Pasqua, e a partecipare addirittura a quella celebrazione che è forse la più ebraica di tutte: il Kippur, la solennità del digiuno, dell’espiazione delle colpe. Per il culto sinagogale il Kippur è la celebrazione che in assoluto contraddistingue l’ebreo nell’ambito della liturgia. 

venerdì 2 gennaio 2015

Giovanni 1,1-18: II domenica dopo Natale


Dio – ci ricordano gli antichi Padri della Chiesa – si è fatto uomo nel Figlio perché gli uomini diventino, nel Figlio, anch’essi divini, figli di Dio. Perchè realizzino il sogno di Dio di rendere ogni creatura partecipe del suo disegno di amore.
Giovanni apre il suo Vangelo presentandoci Gesù che nasce nella sua pienezza divina. Lo fa con espressioni di alta teologia con cui spiega come Gesù sia la Parola di Dio fatta carne, incarnata nel nostro mondo, come Lui e solo Lui possa parlarci di Dio, perché a Lui solo appartiene: Dio, che nessuno ha mai visto, lo possiamo vedere, comprendere e seguire solo nel Figlio.
Gesù è la Parola di Dio: parola che crea, dona vita, benedice, esprime. Una parola donata agli uomini, i soli che usano la parola, che possono comunicare: la parola distingue l’uomo dall’animale, richiede la relazione tra più persone. La parola viene donata e affidata all’uomo e in lui può divenire strumento di conoscenza e comunione, di amore e di libertà, ma anche strumento di menzogna e inganno, di violenza e morte, di distruzione e di egoismo. Quante volte il Papa si è scagliato contro le mormorazioni e i pettegolezzi, contro le maldicenze e le denigrazioni. Quanto male si può fare con le parole, ma anche quanto bene si può fare: basta riandare alle parole del Figlio, accoglierle, viverle, condividerle.