mercoledì 25 febbraio 2015

La Bibbia e la povertà (Ravasi)

Dalla Prefazione di Gianfranco Ravasi a Testimoni della carità nelle periferie umane di monsignor Luciano Baronio (Roma, Edizioni Viverein, 2014, pagine 362, euro 18). 

«Il grido del povero sale fino a Dio, ma non arriva alle orecchie dell’uomo». Così scriveva amaramente un autore dell’Ottocento francese, Félicité-Robert de Lamennais, incrociando a una nota citazione biblica (cfr. Siracide, 21, 5) un’esperienza sociale costante. I poveri, che sono pur sempre i destinatari della prima beatitudine del Discorso della Montagna, sono spesso la base dimenticata della piramide della società. A loro, come sappiamo, Papa Francesco sta dedicando ripetutamente la sua attenzione, i suoi appelli, la sua vicinanza, stimolando la Chiesa a non esitare ad avviarsi verso le strade polverose e misere delle periferie non solo urbane ma anche esistenziali. È stata questa anche la scelta di Cristo che ha voluto come compagni di viaggio privilegiati proprio gli ultimi e gli emarginati.
La prima tavola tematica la riserviamo allora alla realtà della “povertà”, una componente rilevante nelle Sacre Scritture. Ampi strati della popolazione, ai tempi della Bibbia, vivevano in condizioni di disagio sociale. È significativo, infatti, che la stessa legislazione biblica si preoccupi di tutelare il povero, impedendo prevaricazioni e oppressioni: si pensi, a esempio, all’anno giubilare che, con la remissione dei debiti e il ritorno delle terre agli antichi proprietari, tentava di riportare Israele a una sorta di perequazione economica. Il giudice era ammonito di «non far deviare il giudizio del povero che si rivolge a lui nel processo» (Esodo, 23, 6). Ma la realtà ben presto svelava il suo volto oscuro, al punto tale che nella stessa legislazione si doveva far appello alla suprema cassazione divina: il Signore, infatti, era considerato come il go’el, il “difensore”, il “tutore” dell’indigente, della vedova, dell’orfano calpestati e offesi.

In questa situazione di squilibri sociali si era levata alta la voce dei profeti, i custodi più coraggiosi della giustizia: basterebbe solo leggere il libro del profeta Amos per scoprire lo sdegno con cui questo ex-contadino denunciava le ingiustizie perpetrate dalle alte classi nei confronti dei miseri che spesso, a causa dei debiti, erano costretti a vendersi come schiavi a prezzi irrisori, “calpestati sulla testa come polvere della terra” (2, 6-7). Ma anche un profeta di origini aristocratiche come Isaia non esiterà a sferrare attacchi veementi contro una serie di crimini perpetrati a danno dei poveri (5, 8-24). Lo stesso culto è ipocrisia e farsa se non è accompagnato dalla giustizia (Isaia, 1, 10-20; Amos, 5, 21-24).
Proprio per l’estensione del fenomeno e la sua gravità, nell’Antico Testamento sono vari i vocaboli che designano la povertà. Ce n’è uno, però, che acquisterà un valore particolare, soprattutto al plurale, ’anawîm. Letteralmente descrive chi è “curvo” sotto il peso dell’oppressione e della sventura, ma questo atteggiamento diventa anche il segno religioso del rispetto per Dio, a differenza del ricco e del potente che sfidano il Signore (Salmi, 73, 4-12). I “poveri” diventano, così, l’emblema del vero fedele che non si appoggia sulla ricchezza ma confida nella virtù e in Dio. Cristo ha, al riguardo, la celebre beatitudine: «Beati i poveri in spirito» (Matteo, 5, 3). Con questa espressione non si vuole suggerire un vago distacco, pur continuando ad avere tutto: basti solo ricordare l’episodio del giovane ricco che non vuole abbandonare lo statuto di sfarzo in cui vive per seguire Gesù. È, invece, una scelta che si radica nella profondità della coscienza (lo “spirito”) e si ramifica in tutto l’essere e l’agire.
È per questo che Cristo conosce l’umiliazione della povertà e va incontro agli ultimi della società, invitando il ricco a effondere i suoi beni su chi conduce una vita penosa. Così farà anche la Chiesa che, come dice san Giacomo nella sua Lettera, deve mostrare l’efficacia della sua fede sostenendo il povero (2, 1-11) e denunciando lo scandalo delle ricchezze eccessive e ingiuste (5, 1-6). «Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni» (1, 27). Cristo stesso «da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi divenissimo ricchi per mezzo della sua povertà» (2 Corinzi, 8, 9). Ma la povertà deve diventare anche — proprio sull’esempio di Gesù povero — un atteggiamento del cuore e dello spirito, un’espressione di umiltà e di adesione alle scelte di Dio: è ciò che è detto in modo folgorante nel canto di Maria, il Magnificat (Luca, 1, 46-55). È così — come scriveva il grande poeta austriaco Rainer Maria Rilke nel suo Libro della povertà e della morte (1903) — che «la povertà diventa come una grande luce in fondo al cuore».
Eccoci, allora, alla seconda componente che regge idealmente il volume di monsignor Baronio, “l’amore-carità”. Partiamo da una curiosità statistica. Nel Nuovo Testamento la radice del termine greco che indica l’amore, agápe, risuona ben 320 volte (116 volte come sostantivo, 143 volte come verbo e 61 come aggettivo). Siamo, quindi, in presenza di una categoria fondamentale. Contrariamente a quanto si crede, essa attinge la sua realtà già nell’Antico Testamento, come ricorda Gesù a quello scriba che lo interroga sul «primo di tutti i comandamenti»: la risposta è in quell’«Amerai il Signore Dio tuo... e amerai il prossimo tuo» che è la citazione di due passi biblici (Marco, 12, 29-31; cfr. Deuteronomio, 6, 4-5; Levitico, 19, 18). 
La voce di Mosè e quella di Cristo parlano, dunque, all’unisono e a essi si assocerà anche san Paolo con la stessa proposta (Romani, 13, 9-10). In ebraico il termine che meglio riflette questo amore divino e umano è hesed ed esprime la gamma variegata di sentimenti e di impegni che intercorrono tra due persone legate da un’alleanza d’amore. Dio, secondo il libro della Sapienza, «ama tutte le realtà che esistono ed è il Signore amante della vita» (11, 24.26). La sua è una rivelazione d’amore: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo il mio hesed», ossia il mio amore fedele, dice il Signore a Israele (Geremia, 31, 3).
Il cristianesimo raccoglie questo messaggio della prima alleanza e ne fa quasi il suo vessillo coniando quella straordinaria definizione: «Dio è amore» (1 Giovanni, 4, 8-16), è «il Dio dell’amore» (2 Corinzi, 13, 11). La stessa missione di Cristo è quella di rivelare che «Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito» (Giovanni, 3, 16); e infatti egli «passò facendo del bene e risanando tutti i sofferenti» (Atti degli apostoli, 10, 38). A questo amore divino, che non ignora la giustizia come segno dell’autenticità dell’amore, deve corrispondere il nostro amore: «Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci. Se ci amiamo, Dio dimora in noi e il suo amore è perfetto in noi» (1 Giovanni, 4, 11-12).
Due sono le dimensioni di questo amore, come suggeriva Gesù allo scriba sopra citato. Esso deve innanzitutto orientarsi verso Dio Padre, accogliendo la sua parola e la sua legge. «Ti amo, Signore, mia forza» (Salmi, 18, 2): può essere questa la comune professione d’amore dell’ebreo e del cristiano e il Cantico dei cantici o la storia del profeta Osea sono la parabola simbolica di questo amore che conosce l’intimità ma anche il tempo della prova e del nostro tradimento. L’amore deve, poi, proiettarsi verso i fratelli: «Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello» (1 Giovanni, 4, 21). Cristo spingerà il precetto biblico antico fino alle sue estreme conseguenze, portando l’amore verso la vetta suprema del perdono del nemico e della donazione di sé: «Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama» (Giovanni, 15, 13).
Questa generosità, che si estende soprattutto verso gli ultimi, i poveri e i sofferenti, sarà l’argomento decisivo del giudizio divino sull’umanità alla fine della storia, perché — dirà Cristo — «tutto quello che avete fatto a questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo, 25, 40). È in questa luce che il testo di monsignor Baronio può trasformarsi non solo in una conferma testimoniale di questo appello di Gesù ma anche in una interpellanza alla coscienza del lettore perché — come dice lo stesso Cristo al dottore della Legge, dopo aver narrato la parabola del Buon samaritano — «vada e faccia» l’opera della carità (Luca, 10, 37).
L'Osservatore Romano

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