Dio ha voluto creare un mondo in cui i viventi potessero, appunto, vivere e quindi potessero nutrirsi. Le prime pagine della Genesi, dove in una sinfonia si tenta di raccontare la creazione, Dio affida all’umanità nella polarità uomo-donna il cibo: «Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è sulla terra, e ogni albero che dà frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo. E così avvenne. Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco era cosa molto bella e buona» (Gen 1,29).
Tutti i frutti della terra sono donati all’uomo ma c’è un’insistenza sull’erba e sugli alberi che fanno seme, rivelando subito che quel seme non è destinato solo a essere mangiato con il frutto, ma può cadere a terra e questa è anche un’azione umana: la semina richiede la cura, la cultura da parte dell’uomo. Questa pagina svela una grande verità: la terra è madre, ci nutre, ma noi dobbiamo esercitare una 'cultura' nel senso più vero, cioè coltivarla. La terra madre ci è data come un giardino da coltivare e, infatti, sta scritto: «Il Signore Dio prese l’umanità e la fece riposare nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15).
Natura e cultura hanno qui la celebrazione del loro legame, per sempre indissolubile: un legame nella custodia che è rispetto, protezione, cura intelligente e amorosa. Sì, Madre terra! Qui possiamo avvertire la presenza, anche se non esplicita, di un comandamento: «Ama la terra come te stesso! ». Questa terra va lavorata con il sudore della fronte, ma da essa l’uomo trae il cibo (Gen 3,17-19), è terra madre che genera cibo e vita, è terra che accoglierà alla fine i nostri corpi mortali, perché dalla terra siamo stati tratti.
Il cibo è innanzitutto voluto da Dio, è cosa buona e bella, è ciò che l’uomo si guadagna con il lavoro, è ciò che l’uomo renderà sempre più capace di nutrirlo e di renderlo più uomo! Non a caso l’inizio della cultura si registra nello spazio del mangiare, non a caso il linguaggio è nato intorno a una pietra che come tavola radunava attorno a sé gli uomini e le donne che avevano deciso di mangiare insieme e non più come gli animali.
Proprio nell’atto del nutrirsi, che instaura un giusto rapporto tra bisogno-desiderio-soddisfazione, viene impressa la giusta relazione tra l’umano e le altre creature: relazione fondata sul riconoscimento, sul rispetto della loro alterità, sul valore e sulla dignità di ogni alimento. Il modo di vivere l’azione del mangiare ne determina il senso e fissa il ruolo, la funzione del cibo. Si può usare il cibo come cosa da consumare, si può fare del cibo un idolo per la sola soddisfazione dei bisogni individuali e delle proprie voglie, oppure si può vedere nel cibo un dono della terra destinato a tutti - dunque non una preda - e trasformare il pasto in luogo di condivisione con gli altri e di grande comunione con la natura.
Nel libro della Sapienza sta scritto: «Dio ha creato tutto per l’esistenza: le creature del mondo sono apportatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte» (Sap 1,14). E ancora, in un’altra contemplazione della Sapienza sulle opere di Dio, sta scritto: «Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato. Se tu avessi in odio qualcosa, non l’avresti creata. Come potrebbe sussistere qualcosa che tu non vuoi? O conservarsi, se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu salvi tutte le cose perché sono tue, o Signore. Tu, amante della vita!» (Sap 11,24-26).
Dunque tutti i cibi sono buoni e, solo più tardi, gli uomini hanno introdotto la categoria della purità e dell’impurità sui cibi, fino a farne un muro di separazione tra popolo santo e popoli impuri, i pagani. Di fronte al rischio che un’ossessiva separazione tra cibi che si possono mangiare e cibi vietati diventi discriminatoria, non dimentichiamo
che Gesù ha potuto dire anche a questo proposito «Avete udito che fu detto... ma io vi dico», appellandosi all’autorità di nuovo legislatore conferitagli da Dio.
Marco ci testimonia come proprio Gesù, di fronte a una decisione sul puro e sull’impuro, proclami: «Ciò che entra nell’uomo da fuori non po’ contaminarlo perché non gli entra nel cuore, ma compie la sua funzione fisiologica ... mentre è ciò che esce dal cuore dell’uomo che lo rende impuro! E così dichiarava puri, purificava tutti i cibi» (Mc 7,17-19). Per i discepoli di Gesù tutti i cibi sono puri, mangiabili: non esiste su di loro alcun divieto, perché tutti concorrono alla vita dell’uomo! Questa parola di Gesù che dichiara puri, sani, capaci di dare vita tutti gli alimenti, è una parola decisiva: tutte le cose sono buone, come le aveva dichiarate Dio nella creazione e non diventano mai cattive, neanche quando l’uomo ne fa un uso perverso: se questi le rapisce, le accumula, le tiene per sé, le consuma senza rispetto, le proibisce... ecco allora l’inferno, il male! Non è facile da accogliere, questa parola liberatrice di Gesù! La religione e le sue osservanze, infatti, nutrivano diffidenze verso alcuni cibi. Pietro stesso, vent’anni dopo la morte di Gesù, divenuto ormai missionario tra i pagani ad Antiochia, non vuole mangiare con i pagani, diventati peraltro cristiani, a causa del loro mangiare cibi impuri o non macellati secondo la legge. Ma in questo sarà rimproverato da Paolo (cf. Gal 2,11-14). Eppure, in una visione avuta mentre era in casa di pagani, aveva ricevuto una parola dal cielo che diceva: «Ciò che Dio ha reso puro, tu non chiamarlo impuro! » (At 10,15). Né alimenti, né persone sono impure, separate, ma tutte sono creature di Dio che le ha volute e le ha giudicate «buone e belle»!
Non a caso Paolo dovrà ancora rimproverare i cristiani attratti dalle regole religiose, dicendo: «Perché lasciarvi imporre precetti quali 'non prendere, non gustare, non toccare'? Queste sono prescrizioni di uomini, insegnamenti che hanno una parvenza di sapienza, ma sono falsa religiosità, mortificazione inutile del corpo!» (Col 2,20-23).
Gli alimenti, i cibi sono a nostro servizio e sono buoni ma, di fronte a questi doni della terra e del lavoro dell’uomo, sta la nostra responsabilità: abbiamo stupore e meraviglia nel vederli? Sappiamo contemplarli e conoscerli? Sappiamo fare una minima anamnesi del loro nascere, crescere, essere raccolti, preparati e cucinati? Sappiamo rispettarli o li buttiamo facilmente, come le statistiche attestano che avviene, nel nord Italia, per il 30% del pane e del cibo conservato nei nostri frigoriferi e nelle nostre dispense? Sappiamo vedere negli alimenti la fatica della terra che li produce e la fatica dell’uomo necessaria perché possano arrivare sulla nostra tavola come cibo? Sappiamo trarre le conseguenze del fatto che gli alimenti sono destinati a tutti e che invece molti esseri umani ne sono privati fino alla fame?
Si tratta di un miliardo di persone su sette miliardi: uomini, donne e bambini denutriti e affamati perché noi, loro simili più ricchi, li accaparriamo per noi stessi e li neghiamo a loro. Il rapporto con cibo allora è occasione di sapienza sulla vita e appello alla nostra responsabilità: anche quando mangiamo risuona l’esigente domanda: «Che ne hai fatto di tuo fratello?».
Tutti i frutti della terra sono donati all’uomo ma c’è un’insistenza sull’erba e sugli alberi che fanno seme, rivelando subito che quel seme non è destinato solo a essere mangiato con il frutto, ma può cadere a terra e questa è anche un’azione umana: la semina richiede la cura, la cultura da parte dell’uomo. Questa pagina svela una grande verità: la terra è madre, ci nutre, ma noi dobbiamo esercitare una 'cultura' nel senso più vero, cioè coltivarla. La terra madre ci è data come un giardino da coltivare e, infatti, sta scritto: «Il Signore Dio prese l’umanità e la fece riposare nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,15).
Natura e cultura hanno qui la celebrazione del loro legame, per sempre indissolubile: un legame nella custodia che è rispetto, protezione, cura intelligente e amorosa. Sì, Madre terra! Qui possiamo avvertire la presenza, anche se non esplicita, di un comandamento: «Ama la terra come te stesso! ». Questa terra va lavorata con il sudore della fronte, ma da essa l’uomo trae il cibo (Gen 3,17-19), è terra madre che genera cibo e vita, è terra che accoglierà alla fine i nostri corpi mortali, perché dalla terra siamo stati tratti.
Il cibo è innanzitutto voluto da Dio, è cosa buona e bella, è ciò che l’uomo si guadagna con il lavoro, è ciò che l’uomo renderà sempre più capace di nutrirlo e di renderlo più uomo! Non a caso l’inizio della cultura si registra nello spazio del mangiare, non a caso il linguaggio è nato intorno a una pietra che come tavola radunava attorno a sé gli uomini e le donne che avevano deciso di mangiare insieme e non più come gli animali.
Proprio nell’atto del nutrirsi, che instaura un giusto rapporto tra bisogno-desiderio-soddisfazione, viene impressa la giusta relazione tra l’umano e le altre creature: relazione fondata sul riconoscimento, sul rispetto della loro alterità, sul valore e sulla dignità di ogni alimento. Il modo di vivere l’azione del mangiare ne determina il senso e fissa il ruolo, la funzione del cibo. Si può usare il cibo come cosa da consumare, si può fare del cibo un idolo per la sola soddisfazione dei bisogni individuali e delle proprie voglie, oppure si può vedere nel cibo un dono della terra destinato a tutti - dunque non una preda - e trasformare il pasto in luogo di condivisione con gli altri e di grande comunione con la natura.
Nel libro della Sapienza sta scritto: «Dio ha creato tutto per l’esistenza: le creature del mondo sono apportatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte» (Sap 1,14). E ancora, in un’altra contemplazione della Sapienza sulle opere di Dio, sta scritto: «Tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato. Se tu avessi in odio qualcosa, non l’avresti creata. Come potrebbe sussistere qualcosa che tu non vuoi? O conservarsi, se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu salvi tutte le cose perché sono tue, o Signore. Tu, amante della vita!» (Sap 11,24-26).
Dunque tutti i cibi sono buoni e, solo più tardi, gli uomini hanno introdotto la categoria della purità e dell’impurità sui cibi, fino a farne un muro di separazione tra popolo santo e popoli impuri, i pagani. Di fronte al rischio che un’ossessiva separazione tra cibi che si possono mangiare e cibi vietati diventi discriminatoria, non dimentichiamo
che Gesù ha potuto dire anche a questo proposito «Avete udito che fu detto... ma io vi dico», appellandosi all’autorità di nuovo legislatore conferitagli da Dio.
Marco ci testimonia come proprio Gesù, di fronte a una decisione sul puro e sull’impuro, proclami: «Ciò che entra nell’uomo da fuori non po’ contaminarlo perché non gli entra nel cuore, ma compie la sua funzione fisiologica ... mentre è ciò che esce dal cuore dell’uomo che lo rende impuro! E così dichiarava puri, purificava tutti i cibi» (Mc 7,17-19). Per i discepoli di Gesù tutti i cibi sono puri, mangiabili: non esiste su di loro alcun divieto, perché tutti concorrono alla vita dell’uomo! Questa parola di Gesù che dichiara puri, sani, capaci di dare vita tutti gli alimenti, è una parola decisiva: tutte le cose sono buone, come le aveva dichiarate Dio nella creazione e non diventano mai cattive, neanche quando l’uomo ne fa un uso perverso: se questi le rapisce, le accumula, le tiene per sé, le consuma senza rispetto, le proibisce... ecco allora l’inferno, il male! Non è facile da accogliere, questa parola liberatrice di Gesù! La religione e le sue osservanze, infatti, nutrivano diffidenze verso alcuni cibi. Pietro stesso, vent’anni dopo la morte di Gesù, divenuto ormai missionario tra i pagani ad Antiochia, non vuole mangiare con i pagani, diventati peraltro cristiani, a causa del loro mangiare cibi impuri o non macellati secondo la legge. Ma in questo sarà rimproverato da Paolo (cf. Gal 2,11-14). Eppure, in una visione avuta mentre era in casa di pagani, aveva ricevuto una parola dal cielo che diceva: «Ciò che Dio ha reso puro, tu non chiamarlo impuro! » (At 10,15). Né alimenti, né persone sono impure, separate, ma tutte sono creature di Dio che le ha volute e le ha giudicate «buone e belle»!
Non a caso Paolo dovrà ancora rimproverare i cristiani attratti dalle regole religiose, dicendo: «Perché lasciarvi imporre precetti quali 'non prendere, non gustare, non toccare'? Queste sono prescrizioni di uomini, insegnamenti che hanno una parvenza di sapienza, ma sono falsa religiosità, mortificazione inutile del corpo!» (Col 2,20-23).
Gli alimenti, i cibi sono a nostro servizio e sono buoni ma, di fronte a questi doni della terra e del lavoro dell’uomo, sta la nostra responsabilità: abbiamo stupore e meraviglia nel vederli? Sappiamo contemplarli e conoscerli? Sappiamo fare una minima anamnesi del loro nascere, crescere, essere raccolti, preparati e cucinati? Sappiamo rispettarli o li buttiamo facilmente, come le statistiche attestano che avviene, nel nord Italia, per il 30% del pane e del cibo conservato nei nostri frigoriferi e nelle nostre dispense? Sappiamo vedere negli alimenti la fatica della terra che li produce e la fatica dell’uomo necessaria perché possano arrivare sulla nostra tavola come cibo? Sappiamo trarre le conseguenze del fatto che gli alimenti sono destinati a tutti e che invece molti esseri umani ne sono privati fino alla fame?
Si tratta di un miliardo di persone su sette miliardi: uomini, donne e bambini denutriti e affamati perché noi, loro simili più ricchi, li accaparriamo per noi stessi e li neghiamo a loro. Il rapporto con cibo allora è occasione di sapienza sulla vita e appello alla nostra responsabilità: anche quando mangiamo risuona l’esigente domanda: «Che ne hai fatto di tuo fratello?».
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