Luis A. Gallo
(NPG 2004-08-34)
Continuando con la nostra esplorazione contemplativa del volto di Gesù Cristo, fissiamo ora lo sguardo su di un altro suo tratto, molto caratteristico, che lascia trasparire nitidamente il volto di Dio, il Padre suo e di tutti: quello di essere un volto pieno di misericordia.
L’atteggiamento di Gesù verso i peccatori
Nell’Antico Testamento si può seguire un filone abbastanza consistente che stabilisce una netta separazione tra i giusti, coloro cioè che compiono il volere di Dio manifestato attraverso la Legge di Mosè, e gli ingiusti o peccatori, ossia quelli che non si attengono a tale volere e conculcano la Legge. I primi sono visti come graditi a Dio e da lui benedetti, i secondi come da lui aborriti e perfino odiati (Sal 10,5; Sir 12,6).
Con frasi abbastanza crude si arriva a dire che “Dio spezza loro i denti” (Sal 3,8), e che “tutti i peccatori saranno distrutti, e la discendenza degli empi sarà sterminata” (Sal 36,38), e ancora che “se i peccatori germogliano come l’erba e fioriscono tutti i malfattori, li attende una rovina eterna” (Sal 91,8). In questi termini il giusto esprime il suo più vivo desiderio: “Scompaiano i peccatori dalla terra e più non esistano gli empi” (Sal 103,35); “Oh, se Dio sopprimesse i peccatori!” (Sal 138,19).
Naturalmente, ciò si rifletteva sul modo di comportarsi dei giusti nei confronti dei peccatori. “Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori: che io non gusti i loro cibi deliziosi” (Sal 140,4) è la supplica che fa il Salmista, e che esprime chiaramente tale comportamento. Il peccatore, in quanto separato da Dio, doveva venir evitato, e con lui non ci si poteva condividere nulla, tanto meno la mensa, segno tipico di comunione e di amicizia.Con frasi abbastanza crude si arriva a dire che “Dio spezza loro i denti” (Sal 3,8), e che “tutti i peccatori saranno distrutti, e la discendenza degli empi sarà sterminata” (Sal 36,38), e ancora che “se i peccatori germogliano come l’erba e fioriscono tutti i malfattori, li attende una rovina eterna” (Sal 91,8). In questi termini il giusto esprime il suo più vivo desiderio: “Scompaiano i peccatori dalla terra e più non esistano gli empi” (Sal 103,35); “Oh, se Dio sopprimesse i peccatori!” (Sal 138,19).
Ai tempi di Gesù un simile modo di pensare e di agire era in pieno vigore. Così, nel vangelo di Giovanni si leggono queste parole dette dai farisei nel furore della loro polemica con Gesù: “Questa gente, che non conosce la Legge, è maledetta!” (da Dio, ovviamente) (Gv 7,39). L’atteggiamento di disprezzo di coloro che si ritenevano giusti, a posto davanti a Dio, verso i peccatori, quella categoria di persone che comprendeva una larga fascia di membri del popolo con a capo gli esattori delle tasse e le prostitute, viene bene messo in evidenza dalla parabola dei due uomini che salgono al tempio a pregare. Nell’introduzione, l’evangelista avverte che Gesù raccontò tale parabola “per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri” (Lc 18,9).
In tale contesto il modo di comportarsi di Gesù si dimostra veramente sovvertitore dello statu quo vigente da secoli: egli accoglie i peccatori in maniera benevola e compassionevole, offrendo loro compagnia e perdono da parte di Dio. Arriva perfino a fare comunione di mensa con essi (Mt 9,10; Mc 2,15; Lc 5,29; 15,1-2), contravvenendo in tal modo alle più radicate abitudini e provocando lo scandalo dei giusti (Lc 15,1-2).
Anche davanti a questa situazione egli reagisce in linea di principio, ma principalmente in modo operativo.
Il principio, che esprime la sua presa di posizione “asimmetrica” e “sbilanciata” nei confronti del conflitto tra giusti e peccatori, lo troviamo enunciato dai vangeli sinottici nel racconto della vocazione di Levi, egli pure ufficialmente un peccatore, dal momento che era un esattore delle tasse. Alla mormorazione dei farisei che lo vedono seduto a mensa con molti pubblicani e peccatori, egli risponde affermando non senza una certa solennità: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: ‘Misericordia io voglio e non sacrificio’. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,12-13; cf Mc 2,17; Lc 5,31-32).
Appartiene ancora al piano del principio la serie delle tre parabole che egli racconta per giustificare il suo modo di comportarsi criticato ancora dai suoi avversari, quelle della pecorella smarrita, della moneta perduta e del figlio sbandato (Lc 15,4-32). La terza è indubbiamente la più espressiva. Soprattutto se si tiene conto della contrapposizione evidenziata tra i due fratelli, che impersonano precisamente i peccatori (il figlio minore) e i giusti (il figlio maggiore). La sollecitudine sconfinata del padre nei confronti del primo, che contraddice tutte le logiche in vigore nella religiosità d’Israele, riflette con chiarezza meridiana il pensiero di Gesù in questo campo.
Ma, come si diceva, è soprattutto il comportamento di Gesù nei confronti dei peccatori quello che rivela il suo pensiero. Ci sono nei vangeli due casi particolarmente rappresentativi di esso: quello della peccatrice che gli lava i piedi a casa del fariseo Simone (Lc 7,37-50), e quello della donna sorpresa in adulterio (Gv 8,1-11).
In tutti e due i casi l’atteggiamento di Gesù è sconvolgente. Egli non centra la sua attenzione sul peccato, ma piuttosto sulla persona bisognosa di esserne liberata. Con una serenità e una sorta di maestà che stupiscono, egli avvolge le due donne nel grande abbraccio della misericordia sua e di Dio, e le strappa dal sepolcro in cui sono rinchiuse restituendole alla vita: “Ti sono perdonati i tuoi peccati”, dice con sconcertante sicurezza alla prima, irrimediabilmente incatenata al suo modo di vivere in prostituzione; “Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più”, annuncia alla seconda, che trema ai suoi piedi aspettando la lapidazione da lei giustamente meritata secondo la Legge. E a tutte e due dischiude orizzonti nuovi, pieni di possibilità di vita e di futuro.
Anche nel momento finale della sua vicenda terrena egli, che si dibatte tra le angosce e le sofferenze sulla croce, oltre a dire a Dio: “Padre, nelle tue mani consegno la mia vita” (Lc 23,46), dice pure: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34).
La radice ultima: il Padre delle misericordie
Sul volto di Gesù splendeva luminosa e allettante, quindi, la luce della misericordia. Ma, in realtà, in questo come in tanti altri aspetti, la luce che da lui emanava proveniva da Colui con cui egli era in rapporto d’intensa intimità filiale.
Infatti, il Dio con cui Gesù si rapportava, e del quale rendeva visibile e vicino il volto, era un Dio che egli aveva imparato a conoscere e ad amare sin da piccolo nell’atmosfera credente del suo popolo. L’immagine di quel volto gli veniva da lontano, quindi, ed era arrivata a lui attraverso una lunga e travagliata esperienza di secoli. Egli l’aveva ricevuta già abbastanza matura, ma ancora bisognosa di ritocchi. Ritocchi che le diede facendo delle scelte, scartando certi suoi tratti e accogliendone e potenziandone altri.
Chi legge con una certa attenzione i diversi scritti dell’Antico Testamento, arriva a individuarvi la presenza di due filoni nel modo di tratteggiare il volto Dio. Uno è quello che prospetta un Dio “bifronte” e “simmetrico” il quale, secondo quanto si diceva più sopra, reagisce alla condotta degli uomini amando o odiando, accogliendo o scartando, benedicendo o maledicendo, a seconda che essi siano giusti o ingiusti. Per di più, questo suo volto appare più di una volta segnato da tratti di violenza e di crudeltà. È un Dio vendicativo che approva e arriva perfino anche a comandare la vendetta per le offese ricevute (per esempio 1 Sam 15,1-3). Si comprende in questa luce la reazione dei marcioniti, quegli eretici dei primi secoli che ripudiavano l’Antico Testamento perché, secondo loro, veicolava una simile immagine di Dio, inaccettabile per un seguace di Gesù Cristo.
C’è però nell’Antico Testamento un altro filone, forse meno consistente agli inizi ma poi progressivamente sempre più risoluto, che abbozza il volto di JHWH come quello di un Dio “asimmetrico”, che ama i peccatori e li chiama a conversione indicando loro la strada del ritorno. Lo si ritrova spesso negli scritti profetici, ma anche nei Salmi. “Buono e retto è il Signore, la via giusta addita ai peccatori”, dichiara il Sal 24,8. Ci sono dei testi che esprimono in maniera particolarmente nitida questo filone, tra i quali quello di Is 1,18: “Su, venite e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”, o quello di Ez 33,11: “Com’è vero ch’io vivo, oracolo del Signore Dio, io non godo della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva”.
È il Dio della misericordia di cui parla più di una volta l’Antico Testamento (Neh 9,19.28; Sal 40,11; 50,1; 69,16; Is 63,7; ecc.), utilizzando un’espressione che porta a pensarlo più ancora sulla linea materna che su quella paterna. La misericordia, infatti, che in ebraico si dice rahamîm, si rifà etimologicamente al seno materno (rhm).
Uno dei libri in cui questo volto di JHWH viene dipinto con maggior nitidezza è quello di Giona. In esso JHWH appare come Dio di tutti i popoli, sollecito del bene e della salvezza perfino di quel popolo che un tempo era stato dominatore e oppressore d’Israele, e invia il suo messaggero a richiamare a conversione Ninive, la cui malizia era salita fino a Dio (Gio 1,1), perché potesse scampare la distruzione. L’epilogo è l’effettiva conversione della città e la conseguente “conversione” di Dio: “Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece” (Gio 3,10). A dispetto del Profeta che, in un dialogo elaborato con fina ironia da parte dell’autore, si lamenta con sdegno: “Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato” (Gio 4,2).
È questo il Padre buono e misericordioso che Gesù rende presente con il suo comportamento verso i “miseri”, verso coloro cioè che sono umanamente indegni di amore e di sollecitudine, perché per propria colpa se ne sono resi tali.
Infatti, il Dio con cui Gesù si rapportava, e del quale rendeva visibile e vicino il volto, era un Dio che egli aveva imparato a conoscere e ad amare sin da piccolo nell’atmosfera credente del suo popolo. L’immagine di quel volto gli veniva da lontano, quindi, ed era arrivata a lui attraverso una lunga e travagliata esperienza di secoli. Egli l’aveva ricevuta già abbastanza matura, ma ancora bisognosa di ritocchi. Ritocchi che le diede facendo delle scelte, scartando certi suoi tratti e accogliendone e potenziandone altri.
Chi legge con una certa attenzione i diversi scritti dell’Antico Testamento, arriva a individuarvi la presenza di due filoni nel modo di tratteggiare il volto Dio. Uno è quello che prospetta un Dio “bifronte” e “simmetrico” il quale, secondo quanto si diceva più sopra, reagisce alla condotta degli uomini amando o odiando, accogliendo o scartando, benedicendo o maledicendo, a seconda che essi siano giusti o ingiusti. Per di più, questo suo volto appare più di una volta segnato da tratti di violenza e di crudeltà. È un Dio vendicativo che approva e arriva perfino anche a comandare la vendetta per le offese ricevute (per esempio 1 Sam 15,1-3). Si comprende in questa luce la reazione dei marcioniti, quegli eretici dei primi secoli che ripudiavano l’Antico Testamento perché, secondo loro, veicolava una simile immagine di Dio, inaccettabile per un seguace di Gesù Cristo.
C’è però nell’Antico Testamento un altro filone, forse meno consistente agli inizi ma poi progressivamente sempre più risoluto, che abbozza il volto di JHWH come quello di un Dio “asimmetrico”, che ama i peccatori e li chiama a conversione indicando loro la strada del ritorno. Lo si ritrova spesso negli scritti profetici, ma anche nei Salmi. “Buono e retto è il Signore, la via giusta addita ai peccatori”, dichiara il Sal 24,8. Ci sono dei testi che esprimono in maniera particolarmente nitida questo filone, tra i quali quello di Is 1,18: “Su, venite e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”, o quello di Ez 33,11: “Com’è vero ch’io vivo, oracolo del Signore Dio, io non godo della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva”.
È il Dio della misericordia di cui parla più di una volta l’Antico Testamento (Neh 9,19.28; Sal 40,11; 50,1; 69,16; Is 63,7; ecc.), utilizzando un’espressione che porta a pensarlo più ancora sulla linea materna che su quella paterna. La misericordia, infatti, che in ebraico si dice rahamîm, si rifà etimologicamente al seno materno (rhm).
Uno dei libri in cui questo volto di JHWH viene dipinto con maggior nitidezza è quello di Giona. In esso JHWH appare come Dio di tutti i popoli, sollecito del bene e della salvezza perfino di quel popolo che un tempo era stato dominatore e oppressore d’Israele, e invia il suo messaggero a richiamare a conversione Ninive, la cui malizia era salita fino a Dio (Gio 1,1), perché potesse scampare la distruzione. L’epilogo è l’effettiva conversione della città e la conseguente “conversione” di Dio: “Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece” (Gio 3,10). A dispetto del Profeta che, in un dialogo elaborato con fina ironia da parte dell’autore, si lamenta con sdegno: “Signore, non era forse questo che dicevo quand’ero nel mio paese? Per ciò mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e clemente, longanime, di grande amore e che ti lasci impietosire riguardo al male minacciato” (Gio 4,2).
È questo il Padre buono e misericordioso che Gesù rende presente con il suo comportamento verso i “miseri”, verso coloro cioè che sono umanamente indegni di amore e di sollecitudine, perché per propria colpa se ne sono resi tali.
Due parabole altamente eloquenti
Forse non c’è nei vangeli un brano più eloquente da questo punto di vista della parabola del “figlio prodigo” o meglio, come preferiscono chiamarla altri, del “Padre misericordioso” (Lc 15,12-24). Al figlio che si è allontanato sbattendo insolentemente la porta in faccia al padre, dichiarandolo morto nel richiedergli la parte dell’eredità che gli spettava, e poi ancora dissipando i suoi beni in una vita dissoluta, il padre lo attende non come umanamente si aspetterebbe, ma in maniera totalmente sconvolgente: “Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò” (15,20), e non contento di questo “disse ai servi: ‘Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa’” (15,22). Ha capito bene il senso profondo del racconto il pittore Rubens quando, come fanno notare i commentatori, nel rappresentare l’incontro tra padre e figlio, ad una delle mani poste sulle spalle del figlio diede un aspetto maschile e all’altra un aspetto femminile. Il Dio della parabola è davvero il Dio del “seno materno” prefigurato nella “misericordia-rahamîm” dell’Antico Testamento.
Nella parabola si vede come Gesù abbia fatto suo e portato a culminazione quel filone veterotestamentario che delineava il volto di JHWH come il volto di un Dio “asimmetrico”, che non ama chi è buono e odia chi è cattivo, ma ama con amore di benevolenza tutti senza distinzione e senza condizione. Un Dio “gratuito”, quindi, che “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,36).
C’è nel discorso programmatico di Gesù, quello detto della montagna, una frase che può essere considerata come lo sbocco finale o, se si vuole, il punto più alto di arrivo, del filone appena menzionato. È quella in cui Gesù dice: “Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico’; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti [...]. Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,43-48).
La perfezione del Padre celeste che viene proposta a modello di comportamento non consiste nel testo, come è palese, nella pienezza dell’essere, ma nel “far sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni”, e nel “far piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”. In parole equivalenti: nell’essere un Dio “asimmetrico”, che vuole il bene di tutti senza distinzione, raffigurato da Gesù in due fenomeni atmosferici che sono oggetto di esperienza quotidiana. Difficilmente si poteva delineare in maniera più eloquente il volto del Dio della misericordia.
Con parole differenti, che non vanno però prese come una definizione concettuale, ma piuttosto come enunciato di ciò che i discepoli sperimentarono nella vicenda di Gesù, la prima lettera di Giovanni dirà più tardi che “Dio è amore” (1Gv 4,8.16), intendendo per “amore (agápe)” precisamente quello gratuito di benevolenza.
Nella stessa linea della parabola del “Padre misericordioso” di Lc 15,12-41 si colloca quella del buon Samaritano di Lc 10,30-37. Con essa Gesù volle proporre una linea fondamentale di comportamento – “Va’ e anche tu fa’ lo stesso” (10,37) –, e nel farlo mette davanti agli occhi la figura del “fratello misericordioso”. È il Samaritano, il nemico disprezzato perché appartenente ad un popolo bastardo e infedele nell’opinione dei Giudei, quello che, a differenza degli uomini del culto, si lascia toccare nel vivo dalla disgrazia dell’uomo lasciato mezzo morto ai margini della strada. Ed è questa sua commozione viscerale che lo spinge a “farglisi prossimo” e a “usargli misericordia”, rendendosi così fattivamente suo fratello.
Senza trascurare la valenza etica della parabola, i Padri della Chiesa la lessero anche in chiave teologica: il Samaritano sensibile e misericordioso è Dio stesso, che in Gesù si china commosso sull’umanità ferita, e se ne prende cura. In lui Egli si rende fratello tenero e sollecito di ogni essere umano nelle sue necessità, rendendo visibile il suo volto, un volto veramente pieno di misericordia.
Nella parabola si vede come Gesù abbia fatto suo e portato a culminazione quel filone veterotestamentario che delineava il volto di JHWH come il volto di un Dio “asimmetrico”, che non ama chi è buono e odia chi è cattivo, ma ama con amore di benevolenza tutti senza distinzione e senza condizione. Un Dio “gratuito”, quindi, che “è benevolo verso gli ingrati e i malvagi” (Lc 6,36).
C’è nel discorso programmatico di Gesù, quello detto della montagna, una frase che può essere considerata come lo sbocco finale o, se si vuole, il punto più alto di arrivo, del filone appena menzionato. È quella in cui Gesù dice: “Avete inteso che fu detto: ‘Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico’; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti [...]. Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,43-48).
La perfezione del Padre celeste che viene proposta a modello di comportamento non consiste nel testo, come è palese, nella pienezza dell’essere, ma nel “far sorgere il sole sopra i malvagi e sopra i buoni”, e nel “far piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”. In parole equivalenti: nell’essere un Dio “asimmetrico”, che vuole il bene di tutti senza distinzione, raffigurato da Gesù in due fenomeni atmosferici che sono oggetto di esperienza quotidiana. Difficilmente si poteva delineare in maniera più eloquente il volto del Dio della misericordia.
Con parole differenti, che non vanno però prese come una definizione concettuale, ma piuttosto come enunciato di ciò che i discepoli sperimentarono nella vicenda di Gesù, la prima lettera di Giovanni dirà più tardi che “Dio è amore” (1Gv 4,8.16), intendendo per “amore (agápe)” precisamente quello gratuito di benevolenza.
Nella stessa linea della parabola del “Padre misericordioso” di Lc 15,12-41 si colloca quella del buon Samaritano di Lc 10,30-37. Con essa Gesù volle proporre una linea fondamentale di comportamento – “Va’ e anche tu fa’ lo stesso” (10,37) –, e nel farlo mette davanti agli occhi la figura del “fratello misericordioso”. È il Samaritano, il nemico disprezzato perché appartenente ad un popolo bastardo e infedele nell’opinione dei Giudei, quello che, a differenza degli uomini del culto, si lascia toccare nel vivo dalla disgrazia dell’uomo lasciato mezzo morto ai margini della strada. Ed è questa sua commozione viscerale che lo spinge a “farglisi prossimo” e a “usargli misericordia”, rendendosi così fattivamente suo fratello.
Senza trascurare la valenza etica della parabola, i Padri della Chiesa la lessero anche in chiave teologica: il Samaritano sensibile e misericordioso è Dio stesso, che in Gesù si china commosso sull’umanità ferita, e se ne prende cura. In lui Egli si rende fratello tenero e sollecito di ogni essere umano nelle sue necessità, rendendo visibile il suo volto, un volto veramente pieno di misericordia.
Nessun commento:
Posta un commento