Luis A. Gallo
(NPG 99-07-54)
Una delle manifestazioni più vistose della tenerezza di Dio è il suo atteggiamento di misericordia verso i peccatori. Gesù, stando alle narrazioni dei vangeli, fece toccare con mano più di una volta e in maniera molto commovente tale tenerezza accogliendoli e dando loro il perdono nel suo nome.
Gesù sconvolge per la sua misericordia
Ci sono nei vangeli dei racconti che commuovono in maniera particolare. Tra essi, due in cui Gesù ha a che fare con delle donne, e per di più con delle donne peccatrici.
L’episodio è di una drammaticità impressionante. Soprattutto perché sono in conflitto la vita di una persona e l’osservanza della Legge e, in ultima istanza, anche la sorte stessa di Gesù. Come al solito, quando si trova davanti a tali situazioni, Gesù non esita: la vita della gente vale più di tutto. Il suo «neanch’io ti condanno; va’» con cui conclude il racconto, è una frase carica di significato: non solo non decide per la morte della peccatrice, lui che, l’unico «senza colpa», avrebbe potuto scagliare la pietra, ma scommette per la sua vita e per il suo futuro.
L’altra narrazione appartiene al vangelo di Luca. Lo scenario è questa volta la casa di un fariseo chiamato Simone, dove Gesù si era recato accogliendo un invito a pranzo (Lc 7,37-50). Nel bel mezzo del banchetto entrò nella stanza una peccatrice – probabilmente una nota prostituta della città –, e «fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato» (v. 38). La reazione del padrone di casa non poteva farsi attendere. Per lui, lasciarsi toccare da una donna impura come quella era qualcosa d’inammissibile: significava perdere la propria purità, con tutte le conseguenze che ciò comportava, soprattutto nella vita religioso-sociale. Lo pensava nel segreto del suo cuore; ma Gesù che, come dice altrove il vangelo, «sapeva quello che c’è in ogni uomo» (Gv2,25), se ne accorse e intavolò con lui un dialogo mirato a fargli capire la grandezza dell’amore racchiuso nel cuore di quella donna che egli riteneva degna di disprezzo. Alla fine, rivolto alla donna, le disse: «Ti sono perdonati i tuoi peccati» (v. 48); e, senza badare alle reazioni di stupore dei commensali, aggiunse: «La tua fede ti ha salvata; va’ in pace!» (v. 50).
Ci troviamo di nuovo davanti ad una presa di posizione di Gesù in favore di una condannata in ragione della Legge, davanti ad una sua nuova decisa scommessa per la vita e il futuro. Anche se l’evangelista, come è sua abitudine, non dice niente su ciò che ne fu della vita di quella donna in seguito, è da immaginare l’effetto sconvolgente che devono avere avuto su di lei quelle parole di Gesù: «Va’ in pace!». Si può supporre con fondamento che sia vissuta per il resto dei suoi anni sotto la formidabile sensazione della liberazione da un peso enorme che la schiacciava, quel peso accumulato in tanti anni di vita peccaminosa, e dell’improvviso spalancarsi davanti a lei di un mondo nuovo, fatto di dignità, di serenità e di gioia. Gesù, con la sua accoglienza piena di misericordia, produsse davvero in lei un’autentica risurrezione.
Dietro a Gesù, il Padre
Come in tanti altri casi, il modo di comportarsi di Gesù rispecchia quello del Padre suo e nostro. La misericordia con cui il Padre accoglie i peccatori la si coglie in maniera del tutto particolare nella parabola del figlio smarrito, raccontata da Gesù per giustificare il proprio modo innovatore di comportarsi con i peccatori (Lc 15,11-32).
È interessante rilevare, come prima cosa, quale concezione del peccato essa sottintenda. Non lo pensa in termini di «violazione di una legge», come un tempo si usava fare nella teologia e nella morale cristiana, intendendo ovviamente per «legge» quella di Dio, ma in termini di rottura di un rapporto di amore e di allontanamento dalla casa paterna. Il figlio che nella narrazione rappresenta i peccatori, è un figlio che decide di andarsene per conto suo, voltando insolentemente le spalle a suo padre e rifiutando spudoratamente il suo amore. Nell’illusione, lo si può supporre, di trovare altri lidi in cui poter raggiungere la propria felicità grazie «alla parte del patrimonio che gli spettava» (v. 2). Finì per condurre una vita da dissoluto e per sperperare tutto ciò che aveva: si ritrovò nella miseria e nel bisogno (v. 4).
Ma è altrettanto interessante rilevare i tratti del volto di Dio che vengono delineati nella parabola. Lo si abbozza attribuendo al padre degli atteggiamenti molto caratteristici. In primo luogo, quello dell’attesa instancabile: egli non esclude dal suo amore il figlio che se ne è andato da casa esigendo arrogantemente la sua parte d’eredità, al contrario lo aspetta con una perseveranza instancabile (v. 20); in secondo luogo, quello della profonda commozione alla vista del suo rientro. Dice infatti il testo:
«Quando [quel figlio] era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa».
Oltre che mediante gli atteggiamenti del padre, il volto di Dio viene delineato anche mediante la serie di azioni che egli intraprende nei confronti del figlio: gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia (v. 20); non soddisfatto ancora, ordina ai servi di portare il vestito più bello e di rivestirlo, di mettergli l’anello al dito e i calzari ai piedi, di portare il vitello grasso e di ammazzarlo per far festa (vv. 22-23). E al figlio maggiore, che reagisce con una logica totalmente differente dalla sua, adirandosi di fronte a tali manifestazioni di amore e di tenerezza per uno che se ne è andato di casa quasi sbattendo la porta, e che per di più ha sperperato tutti i beni avuti vivendo in maniera dissoluta, egli mitemente, quasi giustificandosi davanti a lui, risponde:
«Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (v. 32).
C’è chi ha detto che questa è «la perla delle parabole» e, in verità, occorre riconoscere che in essa il discorso di Gesù su Dio raggiunge un vertice impareggiabile. Più che parabola «del figliol prodigo», come viene comunemente detta, dovrebbe essere chiamata, con maggiore esattezza, parabola «del padre misericordioso». In essa Gesù afferma, in un modo che sconcerta e perfino sconvolge la logica religiosa comune di allora e di oggi, che il Dio che lo muove a comportarsi così con i peccatori, accogliendoli e facendoli sedere alla sua mensa (Lc 15,1), è un Dio tutt’altro che scontato e ovvio: è Padre, ma Padre in una maniera tale che fa saltare tutti gli schemi umani imperniati sulla concezione simmetrica dell’amore e della giustizia. È un Dio che, come diceva Nietzsche se pur in un altro senso, «sa danzare». E danza, precisamente, quando può accogliere con un cuore traboccante di misericordia il figlio che se ne era andato e ritorna.
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