Bruna Costacurta
Vi propongo la semplice lettura di un capitolo bello del Nuovo Testamento che mostra il volto di Dio come Dio buono, che perdona, come Dio Padre. E’ il famoso capitolo 15 del vangelo di Luca. E’ il capitolo delle parabole della misericordia e del perdono che Gesù narra in risposta agli scribi e ai farisei, che si scandalizzavano del fatto che egli accoglieva i peccatori e mangiava con loro. Il capitolo è organizzato con le prime due parabole piccole, molto simili tra di loro, quella della pecora perduta e quella della dramma perduta e poi la grande parabola, molto più articolata, la parabola dei due figli, del figlio maggiore e del figlio minore. Tutto il capitolo è ben pensato; bisogna leggerlo tutto insieme, a cominciare dalle prime due parabole: il pastore con la pecora perduta e la donna che perde la dramma.
Il pastore e un donna, un maschio e una femmina, un modo per dire la totalità. Due personaggi che dicono però il credente in quanto tale. E formano un’unità. Tutto comincia: ‘Allora egli disse loro questa parabola’ e poi ‘questa parabola’ sono le due, come se fossero un unico blocco. E dopo, invece, c’è la parabola dei due figli che comunque riprende la tematica della altre due. È tutto in relazione. Perché dei due figli uno se ne va di casa e l’altro, invece, rimane; e però rimane perdendosi, perché bisogna che poi il padre vada in cerca pure di lui. Questi due figli richiamano in qualche modo le due parabole precedenti: la pecora se ne è andata, si è persa come il figlio minore che se ne va e si perde. La dramma pure si è perduta, però è rimasta dentro casa, come il figlio maggiore che, perso, però rimane dentro casa. Questa tematica del perdere e del trovare è quella che fa da collegamento a tutto quanto, insieme alla grande tematica della festa e della gioia, quando si ritrova quello che si perde. Vediamo da vicino questi due blocchi: le prime due che formano in realtà una parabola, e poi quella dei due figli.
Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va’ a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione’.
O quale donna, se ha dieci dramme e se ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte’.
Tutto comincia perché i farisei e gli scribi – dice Luca – mormorano contro Gesù, perché riceve i peccatori e mangia con loro. ‘Mangiare con i peccatori’: è una cosa che ritorna nei vangeli. Mangia con i peccatori, mangia con le prostitute, è un mangione, un crapulone… C’è questa idea di Gesù che mangia, lì dove il mangiare, sia come esperienza antropologica dell’uomo, sia come simbolica tipica del mondo biblico, ha una grande forza simbolica, perché mangiare vuol dire prendere il cibo e farlo diventare parte di sé, vuol dire prendere il cibo e farlo diventare vita. Di fatto è mangiando che noi alimentiamo la vita e quindi il cibo è qualche cosa che noi prendiamo dal di fuori e che trasformiamo in vita nostra. Allora, se noi mangiamo insieme con altri lo stesso cibo, è come se stessimo condividendo con gli altri la stessa cosa che ci fa vivere. Mangiare insieme vuol dire attingere alla stessa fonte per vivere. Le stesse cose ci fanno vivere, diventano la nostra vita e quindi c’è una comunione nel mangiare che diventa veramente comunione del vivere. Non a caso l’alleanza al Sinai termina con un banchetto. Le alleanze avevano sempre questa conclusione, perché c’è una comunione di vita che poi si esprime nel fatto che si condivide la vita, cioè si condivide il cibo. Il fatto dunque che Gesù mangi con i peccatori è qualche cosa di scandaloso. Questa mormorazione degli scribi e dei farisei è una cosa seria. Non è un modo con cui dicono: Questo mangia, noi invece facciamo penitenza! Adesso è quaresima, quello mangia e noi no! L’accusa che viene fatta a Gesù è gravissima! Si dice di Gesù che lui condivide la vita con i peccatori! Questi scribi e farisei, che sono i cosiddetti uomini giusti, quelli che non ammettevano mescolanze con i peccatori e con i pubblicani, che erano i collaboratori dei Romani, quindi in contatto con i pagani. Questi giusti che vivevano una giustizia capita come separazione, come rifiuto dell’altro e superiorità nei confronti dell’altro, da cui bisogna tenersi separati e che adesso, invece, si scontrano con un maestro che vive la giustizia non come separazione, ma come vicinanza. Vicinanza, non contagio. Vicinanza non vuol dire diventare come loro, cioè diventando anche lui peccatore, ma farsi sì come loro, non per diventare lui peccatore, ma perché i peccatori diventino come lui. Che è un po’ tutta la linea di un certo intervento di Dio nella storia di Israele secondo la Scrittura. Basti pensare al profeta Osea. Mandato a far diventare santa la moglie infedele, la prostituta, anzi, mandato a trasformare la prostituta in vergine, perché poi tutto finisce che lei è donna di prostituzione, ma tutto finisce con ‘Io ti porterò nel deserto e parlerò al tuo cuore e mi fidanzerò con te e ti rifarò vergine’. Osea è mandato a trasformare la prostituta in vergine, non separandosi dalla prostituta, ma addirittura prendendola in sposa. E lì la prostituta rappresenta Israele. E’ questo popolo che si sta prostituendo a Baal. Pensate al canto del Servo, a questa entrata radicale dentro il peccato, questo prendere su di sé, questo lasciarsi piagare dal peccato degli uomini per salvarli, per risanarli, per uscirne verso la luce, portando con sé i peccatori resi in questo modo santi. Allora Gesù vive una dimensione di rifiuto del peccato, ma non del peccatore, che è invece la posizione degli scribi e dei farisei che rifiutano i peccatori e i pubblicani. Peccatori e pubblicani che, invece - dice Luca - si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo. I giusti, i santi accusano Gesù, non capiscono, rifiutano la salvezza portata da Gesù e, invece, i peccatori si avvicinano per ascoltarlo. Con questo atteggiamento di apertura del cuore, loro sì, per lasciarsi convertire, per lasciarsi cambiare. Gli altri, dall’alto della loro presunta superiorità, si avvicinano per metterlo alla prova. E allora Gesù risponde ai pubblicani e ai peccatori che volevano ascoltarlo, dicendo: Dio perdona! E i pubblicani e i peccatori erano lì allora a ricevere questo annuncio di gioia e di perdono, ma con queste parabole, Gesù risponde non solo ai pubblicani e ai peccatori, ma anche agli scribi e ai farisei. Queste parabole servono a spiegare perché Gesù mangia con i peccatori, perché lui rivela il volto del Padre, perché il Padre è uno che perdona, anzi, che fa festa, quando finalmente può perdonare qualcuno.
E allora, ecco la prima parabola, quella della pecora perduta, la scena abituale. Gesù fa riferimento a un ambiente conosciuto, sia dai peccatori che dagli scribi e dai farisei, l’ambiente della pastorizia. Probabilmente forse c’è anche con un po’ di ironia perché il mestiere di pastori era un mestiere considerato basso e disprezzato, invece, dai dottori della legge e dagli scribi. Che cosa racconta di questo pastore? Una cosa che era normale, che avveniva. Ogni tanto, qualche pecora si perde, e allora, il pastore lascia le 99 pecore per andare a cercare quell’unica che si è persa. Il voluto contrasto: quelle che rimangono sono 99, quella che si perde è una sola! Se uno si vuole basare sui numeri e sulla quantità deve dire: Va bene! Se n’è persa una! Una cosa minima! 99 pecore sono tante e, se badiamo ai numeri, allora sono quelle, quelle che contano e 1 non conta niente. Invece le priorità di Dio non si basano sui numeri. La priorità di Dio è l’amore per chi ne ha bisogno, per chi è in pericolo. E’ vero che 99 sono tante e 1 è poco, ma quell’una ha bisogno, sta perdendosi, è in pericolo. E allora 1 diventa più importante di 99. I numeri non contano! E le altre 99 vengono lasciate per andare a cercare quell’unica che si è persa. Allora, le 99 pecore lasciate lì per quell’unica che si è persa, potrebbero anche risentirsi, è il fratello maggiore, che era rimasto e che si risente perché il padre fa festa per quell’altro che se era andato. Le 99 pecore potrebbero dire: questo che fa! Ci molla qua per andare dietro a una, quella si è persa! Affari suoi! Ha fatto male lei a perdersi e noi qui! Ma il modo con cui ragiona un pastore, che poi è il modo con cui ragiona Dio è: se c’è qualcuno in difficoltà, lo vai ad aiutare! Se perdi una pecora, vai a cercarla! Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati – dice Gesù – e io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori! E dunque Gesù, buon pastore, va in cerca di quella che si è persa e, quando la trova, il contrasto e il paradosso si fa ancora più evidente. C’è già qualcosa di paradossale nel fatto di lasciare 99 pecore per cercarne 1, perché, mentre lui cerca quella, le 99 rimangono lì. Potrebbero perdersi, potrebbero sbandarsi, rimanendo senza pastore! Allora finisce che, per cercarne 1, tu ne perdi 99! Il paradosso continua, perché, quando lui ritrova la pecora, se la mette in spalla – grande scena di tenerezza – ma soprattutto – ecco la cosa paradossale – non ritorna dalle 99, ma continua a lasciare le 99 sole per andare invece a casa a chiamare tutti a fare festa per quest’unica pecora che lui si è portato dietro e che è stata ritrovata. Le altre restano nel deserto e lui, invece, rimane con la pecora trovata e fa festa perché l’ha ritrovata. C’è questa idea dell’esagerazione che è tipica dell’amore di Dio, per cui si fa festa per 1 ritrovata, senza tenere conto che le altre 99 forse si perdono, e c’è l’idea dell’amore totalizzante, tipico di Dio per cui quest’unica trovata è talmente importante; diventa così totalizzante il rapporto con lei e la gioia per averla ritrovata che le altre 99, in qualche modo, si dimenticano. Adesso è lei il tutto. Ebbene questo è Dio quando perdona. E questi siamo noi, quella pecora che, se si lascia perdonare, diventa tutto per Dio! Quando Dio ci perdona, è come se esistessimo per lui solo noi! E allora fa festa! Nel vangelo apocrifo di Tommaso, c’è la parabola del pesce grosso. Secondo il vangelo di Tommaso, Gesù dice questa parabola. Avviene nel regno dei cieli come quando un pescatore va a pescare. Getta le reti, le tira su e sono piene di pesci. Ci sono tutti i pesci messi nella barca e lui controlla questa grande pesca che ha fatto. Tanti, tanti piccoli pesci; solo che in mezzo a quelli trova un pesce grande. E allora, impazzito di gioia, per aver pescato il pesce grosso; butta via a mare tutti gli altri pesci piccoli nella gioia di aver pescato un pesce grosso. Questa è la follia di Dio e anche di chi entra nel modo di pensare di Dio, e quindi entra nel regno di Dio. Trovi il pesce grosso, il regno e quindi butti tutto il resto! Uno direbbe: No! Un minimo di intelligenza! Tieniti il pesce grosso, sii contento e fai festa, ma tieniti pure i pesci piccoli! No! Non è questa la logica del regno: se si trova il pesce grosso, si butta tutto il resto, perché tutto il resto non conta più! Ebbene, se questa è la dinamica del regno, di chi trova il regno, facendo adesso l’applicazione alla parabola: questo è ciò che fa Dio e noi siamo la pecora, ma siamo anche il pesce grosso! E’ tanta la gioia di averci ritrovati, è tanta la gioia di averci potuto perdonare che tutto il resto per Dio non conta; contiamo solo noi! La stessa cosa è nell’altra piccola parabola, quella della dramma. La donna che perde la dramma. Qui le proporzioni sono diverse; lì erano 99 a 1, qui è 9 a 1. Perché la donna di dramme ne ha 10. 9 a 1: questo vuol dire che la preziosità di una dramma cresce rispetto a quella di una pecora. 1 su 99 ha un po’ meno valore; qui è 1 su 10. Quindi un valore enorme. Di fatto la dramma equivale a un denaro. Sarebbe la paga quotidiana di un operaio. 10 dramme da parte della donna è il suo tesoro che gli serve per vivere, a cui attingere in caso di bisogno. Siccome l’ha persa, non può lasciarla perduta e la cerca in casa; si mette a spazzare nella speranza che venga ritrovata, soprattutto che la moneta tintinni sul pavimento così da ritrovarla e, quando la trova, allora di nuovo la festa, il punto fondamentale è questo: la gioia! Dio che fa festa per noi. A queste due parabole di una cosa persa lontano e di un’altra cosa persa vicino, nella casa stessa, fa da completamento la parabola dei due figli.
‘Disse ancora: ‘Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: ‘Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta’. E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e s’incamminò verso suo padre’.
Qui adesso il problema riguarda dei figli e quindi entriamo in una zona più dolorosa del perdere una pecora o del perdere del denaro.Qui c’è un padre che perde un figlio e lo perde veramente, perché l’andarsene di questo figlio non è semplicemente un andarsene normale. Succedeva spesso nell’antichità come adesso che si dovesse lasciare il proprio paese, la propria casa per emigrare, per cercare fortuna, per farsi strada nella vita. Quella del figlio minore non è una partenza da emigrante; è un andarsene brutale che taglia radicalmente tutti i legami con il padre. Questo figlio non se ne va semplicemente, ma prima di andarsene chiede l’eredità e la brutalità di questo chiedere l’eredità sta nel fatto che in questo modo il figlio sta dicendo al padre che l’unica cosa che vuole da lui è denaro, che questo solo il padre ha da dargli. Non l’insegnamento, non la sapienza, non l’aiutarlo a crescere, non l’affetto, non l’imparare a vivere nel timore di Dio. Non è questo quello che il figlio chiede a questo padre, ma soldi, come se questo solo fosse ciò che il padre ha da dargli! E per di più non gli chiede soldi, gli chiede i soldi dell’eredità, come se questo padre fosse morto. Simbolicamente il figlio qui sta dicendo a suo padre: Tu non mi servi più e tu per me sei morto! Allora dammi quello che, da morto, serve a me per vivere! Tutto si gioca tra il padre e questo figlio. Il figlio maggiore comparirà solo dopo; la madre non compare per niente! E questo è normale perché è una parabola che è centrata sul volto del padre, che deve rivelare il Padre che è nei cieli. Poi tratta questioni maschili. L’eredità è il padre che la dà. Il figlio che se ne va è chiaro che è un figlio maschio, che va in cerca di fortuna e che va a sperperare i soldi. Queste sono attività prettamente maschili; non c’è una figura femminile in tutta questa storia, però credo che non si faccia fatica a capire che dietro al volto di questo padre c’è anche il volto di una madre, c’è anche tutta la tenerezza di una madre che si esprime attraverso l’amore e la tenerezza di questo padre. Un padre che non rifiuta la richiesta del figlio; un padre che si sente dire: tu per me sei morto e accetta di morire in qualche modo. E’ un po’ come se questo padre accettasse questa morte simbolica, accetta di dare la vita, dando al figlio l’eredità, accettando anche questo giudizio che il figlio dà su di lui, come se lui come padre avesse esaurito tutta la sua funzione e avesse fallito nel suo compito di padre, perché non ha insegnato nulla a questo figlio e questo figlio da lui vuole solo cose, soldi e soldi da sperperare! Il ragazzo se ne va in giro, sperpera le sue sostanze vivendo da dissoluto, poi il figlio più grande, il fratello, dirà che questo suo fratello minore ha divorato gli averi paterni con le prostitute. L’interpretazione del figlio maggiore è molto precisa, il figlio minore sperpera tutta l’eredità ricevuta e quindi adesso non ci sono neppure più i soldi a tenere questo ultimo legame che tiene insieme il padre e il figlio. Sono finiti pure quelli! E’ finito anche l’ultimo legame e questo figlio sperimenta la morte. Ha rifiutato il padre come origine della vita e adesso questo si rivela per ciò che è e cioè: una scelta di morte! E adesso il figlio fa questa esperienza; quello che poteva aiutarlo a vivere apparentemente, perché lo fa vivere da dissoluto, non lo fa vivere veramente, non lo fa vivere come figlio, quello che apparentemente lo teneva almeno in vita, adesso è finito e non c’è nemmeno più quello. E adesso si verifica un evento di morte, perché viene la carestia, e il figlio per sopravvivere deve fare il servo che tiene a bada dei porci. ‘Porci’! Credo che la traduzione vada bene, con questo termine un po’ forte. In italiano si potrebbe dire ‘maiale’ e farebbe meno impressione di ‘porco’, ma credo che sia giusto dire così, perché per un israelita, quell’animale lì è l’animale impuro per eccellenza. E’ quello che non bisogna toccare, quello a cui non bisogna avvicinarsi, è quello che evoca tutta la dimensione dell’impurità, della morte, delle cose da rifiutare, che non si possono accettare. Anche la parola forte serve a dire che questo ragazzo, adesso, è alle prese con gli animali che fanno schifo e non semplicemente perché sono sporchi, ma proprio perché vanno a toccare tutta l’idea di purità e di impurità su cui fortemente si basa la vita di un israelita. La separazione dal padre per questo figlio è diventata talmente netta che adesso è persino separazione dalla propria tradizione religiosa, sociale e culturale. Fare il guardiano di porci era una cosa che un israelita non poteva fare. Questo ragazzo ha rinunciato anche all’eredità del proprio popolo. Davvero la rottura con la sua famiglia è diventata assolutamente definitiva e per altro anche inutile, perché questo lavoro comunque non gli consente di sopravvivere, di vivere neppure materialmente. Perché non c’è cibo abbastanza e lui si ritrova a guardare con invidia questi animali schifosi, perché sono gli animali impuri, guardarli con invidia, perché loro almeno mangiano le carrube e lui non ha neppure quelle. Questa è l’abiezione a cui ha portato il rifiuto del padre come datore di vita. E allora, una volta che il ragazzo ha toccato il fondo, decide di tornare a casa, perché a casa persino i servi stanno meglio di lui. Nella storia della sposa di Osea a un certo punto, lei dice: Tornerò dal mio marito di prima, perché con lui stavo meglio. Adesso è la stessa dinamica del figlio minore. Torna dal padre, ma non torna dal padre mosso d’amore per il padre. Questo figlio continua ancora a lasciarsi guidare dall’interesse e soprattutto continua ancora a non capire chi è il padre. Perché decide di tornare dal padre per interesse, perché lì almeno stava meglio. Nonostante tutto, Dio si accontenta anche di questo! Il Padre si accontenta anche di questo ritorno determinato dall’interesse! Lui vuole ritornare per interesse e continua in realtà a rifiutare il padre come padre, continua a non considerarlo padre. Perché dice: Io torno da mio padre; dirò: ho peccato! E qui va bene! Esprime questa doppia dimensione: ho peccato contro di te e contro Dio! Dice: ho peccato! Ma non capisce che il padre è padre! Perché gli dice: Io non sono degno di essere tuo figlio e allora trattami come uno dei tuoi servi! E quindi, non ha capito niente! Continua a non considerare il padre ‘padre’, perché un padre non può trattare un figlio come un servo. Un padre, se davvero è padre, non può fare questo! E dirgli questo vuol dire continuare a non capire l’amore del padre. E allora, quando dice: Io non sono più degno d’essere chiamato figlio, questo figlio non sta solo dando un giudizio su di sé, ma in realtà sta dando un giudizio sul padre. Perché non è padre chi tratta un figlio come servo. Ma se lui non è stato capace di essere figlio e non è capace ancora, nonostante tutto, di riconoscere il padre come padre, il padre invece continua ad essere padre e il padre si accontenta anche di un figlio che torna, pur continuando a non capire. Questo figlio che torna anche senza capire l’amore del padre. Il padre s’accontenta.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivesti telo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Ora l’attenzione della narrazione si concentra tutta sul padre e non più sul figlio. Il padre – si dice – lo vede da lontano. Questo vuol dire che questo padre non ha rinunciato ad aspettare il figlio. Sta continuando ad aspettarlo, sta a guardare lì per vedere se lo vede tornare. E’impressionante come figura di Dio questo padre. E’ un Dio mai rinunciatario. E’ un Dio che, dopo che noi ce ne siamo andati, dicendo: Tu per noi sei morto! Dacci l’eredità; non sappiamo che farcene di te! Lui continua, invece, non solo a sperare che noi si torni, ma continua a star lì ad aspettare in modo da prevenire il nostro ritorno, in modo che appena vede che arriviamo da lontano, pur con quest’idea: torniamo solo perché lì stavamo meglio! Lui ci può correre incontro così che noi non si debba neppure fare tutta la strada, perché tutta la strada per andare incontro al padre può essere penosa e umiliante. E’ un tornare in cui noi dobbiamo dire: Avevi ragione tu! E’ un tornare in cui dobbiamo dire: Ho peccato! In cui dobbiamo chiedere scusa, in cui dobbiamo patire questo avvicinarci al padre, dicendo: sono qua e senza sapere quello che lui fa, se ci accoglierà oppure no! Un po’ la paura, un po’ l’umiliazione, un po’ la fatica di tornare! Dio è uno che ci vuole perfino risparmiare questo! E allora ci corre incontro, in modo che noi non si debba neppure fare questa fatica e questo cammino che potrebbe umiliarci. Ed è commosso – dice Luca – e per dire che il padre è commosso utilizza un termine che fa riferimento allo sconvolgimento delle viscere. E’ un termine che evoca una dimensione materna dello smuoversi che è tipico delle viscere materne, che è tipico di quella tenerezza che trova il suo modo di esprimersi in quello che secondo l’antropologia era il luogo dei sentimenti, degli affetti, della tenerezza tipicamente materna. E si mette a correre così da prevenire il figlio e lo previene proprio in quell’atteggiamento che il figlio aveva di tornare senza tornare ad essere figlio. Perché lo abbraccia. Ora il ragazzo dice: Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio! Trattami come uno dei tuoi servi! Questo figlio arriva; il padre lo abbraccia e in questo modo gli impedisce di gettarglisi ai piedi; in questo modo fa il gesto preveniente, che previene ogni parola del figlio, mostrando amore. Il figlio non deve più interrogarsi su che cosa farà questo padre. Questo padre senza parole, prima ancora che il figlio parli, gli dice: io ti voglio bene; tu per me sei figlio e lo abbraccia! E poi lo bacia che è un altro modo per dire l’amore totalizzante. Perché questo figlio era stato in terra pagana, era diventato impuro; non bisognava neppure toccarlo, ma l’amore non tiene conto di questo! E allora lo abbraccia, lo bacia e poi gli impedisce di dire la frase maledetta. Perché il figlio comincia la frase che aveva deciso di dire: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio! Ma la frase doveva terminare con: Trattami come uno dei tuoi servi! E il padre gli impedisce di terminare la frase… Ma il padre invece, disse ai servi:Presto! Portate il vestito più bello! Quel pezzo maledetto di frase che è il pezzo del figlio che non ha capito il padre, l’amore del padre è tale che addirittura gli impedisce di dirlo! Impedisce a questo figlio di dire e di mostrare che non ha capito. Porta questo figlio ad essere finalmente figlio, anche se questo figlio sembrava non esserne più capace. Gli impedisce di dire la frase sul servo e invece fa tutti i gesti che dicono che questo ragazzo non è un servo, ma un figlio. Il vestito bello che è il dono che il padre fa al figlio preferito. Ricordate Giacobbe che regala la tunica bella al figlio Giuseppe. Il vestito bello che dice che questo è il figlio preferito; l’anello con lo stemma di famiglia, con il sigillo che serviva per i documenti, che reintegra totalmente il figlio come figlio e poi i calzari ai piedi, che portavano i figli e non i servi, perché i servi andavano a piedi nudi. Tutti gesti che dicono che questo non è un servo; è un figlio. Non gli permette di dirlo e invece lo fa diventare figlio. E poi il vitello grasso per fare festa. La festa come quella per la pecora perduta, come quella per la dramma ritrovata; adesso la grande festa! Una grande festa nell’assoluta gratuità, perché fa tutto il padre; il figlio in realtà non fa niente. Il figlio ha deciso di tornare, poi fa tutto il padre. Non è neanche il figlio che arriva, perché è il padre che gli va incontro; fa tutto lui! E’ il Padre che ci fa figli! Non siamo noi che figli gli permettiamo di essere padre. Solo che i figli erano due.
E il figlio maggiore si trovava nei campi.. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: E’ tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.
Il figlio maggiore: anche lui è un figlio mancato! Neppure lui ha mai capito il cuore del padre come l’altro figlio. Il figlio perbene, proprio come i farisei e gli scribi, che ringraziano Dio di non essere come questo pubblicano. Il figlio perbene che non ha mai abbandonato, che sempre è rimasto dentro casa, che non ha mai trasgredito un comando; tutto sempre bello, pulitino, con il vestito stirato, che non ha mai capito niente del padre, perché si è sempre comportato da servo. E lo dice: io ti servo da tanti anni. Questo figlio che ha vissuto nella casa del padre come un servo che obbedisce e non come un figlio che vive della vita del padre. Un figlio mancato che ha vissuto un’obbedienza servile, senza libertà, senza gioia. Un figlio mancato è un fratello mancato. Perché adesso è il fratello che fa emergere tutto il suo risentimento. Uno che crede di non aver bisogno di perdono; io sono sempre stato qua e che non accetta che l’altro sia perdonato. Questo è il problema del figlio maggiore. Sono tre i problemi tutti connessi:
1. Non ha mai capito il padre e non ha mai agito nei confronti del padre come un figlio, non è contento nei confronti del padre, perché si è sempre comportato da servo.
2. Crede di non aver bisogno di perdono.
3. Non accetta che l’altro sia perdonato! Questo è il fratello maggiore che protesta in maniera apparentemente ragionevole: Io sono sempre rimasto qui; ti ho servito; addirittura non ti ho neppure mai chiesto un capretto per fare festa con gli amici! Arriva questo che se ne andato con le prostitute e tu addirittura prendi il vitello, neanche il capretto; a me neanche un capretto e a lui il vitello! E lui con le prostitute e io qui con te a servirti!
E’ chiara la contrapposizione di questo figlio maggiore che, in questo modo, non solo dice che lui non si è mai comportato da figlio, perché un figlio vive quello che il padre gli dice: figlio, qui tutto era tuo! Perché se sei figlio, quello che è mio è tuo e invece questo figlio non ha mai capito questo! E allora, se voleva fare festa con gli amici, pensava di doverlo chiedere al padre e non osava chiederlo. Un figlio non chiede il capretto! Questo è un servo; non è un figlio! Se fosse stato un figlio, quello è tuo padre, quindi fai festa! Prendi il capretto! Tu sai che tuo padre vuole che tu sia felice.Invece questo figlio ha vissuto il rapporto con il padre come un rapporto che non fa felici, come un rapporto di non-libertà, tanto che se ne può uscire con quel ‘questo tuo figlio!’. Il padre gli rovescia tutto, dicendo: questo tuo fratello! Allora questo tuo figlio ha sperperato tutto con le prostitute. Qui emerge il cuore di questo fratello maggiore che fa il confronto. Io qui senza neppure un capretto; lui là con le prostitute. E’ implicito che questo figlio maggiore sta pensando che, tutto considerato, stare là con le prostitute era meglio che stare qua senza capretto. Qui il figlio maggiore sta dicendo che lui ha fatto fatica, che lui ha servito il padre, che quell’altro invece s’è divertito e ha fatto la bella vita! Se il figlio minore tornando stava dando non solo un giudizio su di sé, ma anche un giudizio sul padre, dicendogli: trattami come un servo! Qui adesso questo figlio maggiore sta dando un giudizio sul padre, come un padre che non gli ha permesso di vivere felice. E invece per vivere felici bisogna andarsene e andare con le prostitute! Per vivere felici bisogna sottrarsi a questo padre a cui uno non ha neppure il coraggio di chiedere un capretto. Questo figlio maggiore, arrabbiandosi perché il figlio minore è tornato e si fa festa per lui, sta dicendo tutta la sua fatica, tutto il suo disagio nel vivere con il padre. Sta dicendo: io ho fatto tanta fatica a vivere con il padre! E questo si è divertito, e adesso fanno festa per lui e per me no! Ma è un figlio, uno che vive la vita con il padre e in casa come una vita faticosa, come una vita da servo, come una vita in cui non puoi neanche avere un capretto?
Ma è questo il nostro modo con cui pensiamo la nostra vita con Dio? Perché poi è questo che ci porta a non accettare che il fratello minore sia perdonato. Perché se noi vivessimo la nostra vita con Dio come una vita di gioia, una vita in pienezza sarebbe bello veder tornare il fratello! Io tanto qui sono stato felice! Io qui sono stato contento; io qui ho avuto tutto! E allora adesso, se torna mio fratello, sono contento, perché a me non è mancato niente! Io qui sono stato felice! Allora è chiaro che posso accogliere il fratello! Se non lo accolgo è perché io non sono contento; è perché io non ho vissuto come una gioia la mia vita nella casa del padre e adesso questo si rivela. Io ti servo da tanti anni e questo invece stava con le prostitute!
E’ questa incapacità di perdonare che dice soprattutto la nostra fatica di vivere con il Padre e quindi di vivere la fede. E’ questa incapacità di perdonare al fratello minore perché noi ci crediamo perbene, ma viviamo questo nostro perbenismo come qualche cosa che ci toglie in realtà la gioia, la libertà, ci fa vivere da servi, ci tocca obbedire! Se vogliamo un capretto, dobbiamo chiederlo! Se noi interpretiamo così la nostra vita di fede, il nostro vivere con il Padre, allora prima di tutto quello non è un Padre, noi non siamo figli e quindi non riusciamo ad accogliere il fratello. E infatti questo figlio maggiore non accoglie il fratello, non accetta il perdono del padre e si rifiuta di entrare in casa. In casa si stava facendo festa. Questo fratello si rifiuta di fare festa! Il percepire il Padre come un padrone, percepire Dio come qualcuno a cui bisogna solo obbedire e che non condivide invece tutto. Figlio, quello che era mio, era tuo; no! Il non capire questo, il rifiutarsi alla logica dell’amore gratuito del Padre, questo vuol dire, in realtà, rifiutarsi alla gioia, rifiutarsi alla festa, vuol dire condannarsi ad una vita di tristezza, a una vita da servo e talmente triste che non entri neanche in casa nel momento in cui stanno facendo festa. Il suo rifiuto di entrare non è solo il rifiuto di incontrarsi con il fratello, perché non lo vuole perdonare, ma è il rifiuto di fare festa!
E’ il rifiuto di entrare nella gioia! E allora il padre esce di casa e va incontro al figlio. Questo padre non si stanca mai! Non solo va incontro al figlio minore, ma va perfino incontro al figlio maggiore. Questo padre che non smette mai di essere padre, che ne ha persi due di figli, anche se uno l’ha perso dentro casa, come la dramma. Ne ha persi due dei figli, ma va in cerca di tutti e due! E se quello gli ha detto: questo tuo figlio! Lui gli dice: questo tuo fratello! E lo invita a entrare! E’ l’invito alla gioia che aiuta a uscire da sé, a fare festa e non a fare festa con gli amici e con il capretto, ma a fare festa per il ritorno dell’altro. E’ il volto del padre che si manifesta anche al figlio maggiore, un volto d’amore, che è un amore senza pretese, capace solo di dare e di dare a chi se ne è andato e anche a chi è rimasto dentro casa; di dare a chi ritorna e a chi non è capace di ritornare, perché non è capace di entrare, a chi si lascia perdonare e a chi, invece, non è capace di perdonare. Questo è l’amore del padre.
La parabola finisce con la rivelazione di questo amore, davanti al quale la parabola non ci dice che cosa fa il figlio maggiore. Noi non sappiamo se il figlio maggiore ha finalmente capito l’amore del padre ed è entrato dentro casa. Non sappiamo se questo figlio maggiore si è lasciato anche lui perdonare ed ha perdonato. Non sappiamo se questo figlio maggiore è stato capace di essere figlio e di riconoscere il padre come padre. Non sappiamo se ha voluto fare festa anche lui. La parabola si ferma qui e ci fermiamo qui anche noi. La parabola non lo dice, perché adesso bisogna che ognuno di noi faccia terminare la parabola come lui vuole Adesso bisogna che ognuno di noi faccia finire la parabola, decidendo come figlio maggiore che cosa fare, se entrare dentro casa oppure no! Perché, che il figlio minore torni, non c’è problema; che noi come figli minori torniamo, questo è successo tante volte! Adesso, la domanda che ci pone la parabola è: ma tu, come figlio maggiore, tu così perbene, tu che ti sei perso rimanendo dentro casa, tu adesso che fai? Accetti di perdonare tuo fratello? Accetti di essere perdonato nel tuo non aver voluto perdonare? Accetti questo volto del Padre che fa festa per tuo fratello? E accetti di fare festa anche tu? Insomma: accetti l’amore gratuito? A noi tocca di rispondere e di decidere se entrare. Abbiamo il resto della Quaresima per pensarci! E decidere se a Pasqua vogliamo entrare dentro casa a fare festa!
(Meditazione al quinquennio della formazione permanente del clero di Roma, il 30 marzo 2009, alla Casa Bonus Pastor. Il testo è stato tratto direttamente dalla registrazione e non è stato rivisto dall’autore)
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