di Gianfranco Ravasi, 22.10.2015, Avvenire
Non è difficile rilevare nella Bibbia, dopo una logica dell’esclusione, una dell’accoglienza, che costituisce l’ambito in cui Dio agisce per portare i figli d’Israele a essergli testimoni tra le genti. Come si è visto, Dio, per educare il suo popolo a non sentirsi un privilegiato, invia profeti, che invitano ad aprire il cuore e le braccia a tutti, e sapienti, che trovano i semi di verità dispersi in tutte le culture.
A proposito dell’accoglienza rituale prendiamo ad esempio una pagina cruciale della Bibbia come il Decalogo. Cosa si legge nel comandamento del sabato? Che il riposo sabbatico deve essere praticato anche dal forestiero che dimora presso l’israelita (Es 20,10); anche lui ha diritto al riposo con l’ebreo. In alcuni passi legislativi dell’Antico Testamento, come nei libri del Levitico (16,29) e dei Numeri (9,14), si andrà oltre, affermando che anche lo straniero ha diritto a far festa nel giorno di Pasqua, e a partecipare addirittura a quella celebrazione che è forse la più ebraica di tutte: il Kippur, la solennità del digiuno, dell’espiazione delle colpe. Per il culto sinagogale il Kippur è la celebrazione che in assoluto contraddistingue l’ebreo nell’ambito della liturgia.
Ecco, anche questa festa è aperta allo straniero, se vuole partecipare. E come non ricordare il Terzo Isaia che al capitolo 56 arriva al punto di definire il tempio di Sion come «casa di preghiera per tutti i popoli»? La stessa direzione è percorsa anche dal Primo Isaia al capitolo 2, quando descrive la scena di un’immensa processione di popoli attratti dalla parola del Signore e pronti a ritrovare la pace e la fraternità, «a non alzare più la spada contro un altro popolo» (2,2-5).
Un passo poco conosciuto del profeta Sofonia, più o meno contemporaneo o di poco precedente a Geremia, ci presenta in proposito in un solo versetto un sorprendente bozzetto del tempio di Gerusalemme e del suo culto. Potrebbe trattarsi forse di un sogno, e sicuramente lo è ancora per noi cristiani che non possiamo attuarlo nell’interno delle nostre chiese con tutte le diverse confessioni dei credenti in Cristo. Ecco il ritratto di Sofonia 3,9 con una traduzione italiana molto vicina all’originale ebraico: «Io – dice il Signore – darò a tutti i popoli un labbro puro perché invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla».
È bella quest’immagine del vedere gli uomini tutti uguali, non ce n’è uno che è più su, che sta sulla predella o nel recinto sacro, come avveniva nel tempio di Gerusalemme, perché più importante e più puro degli altri. Nessuno è inferiore all’altro quando si trova nel luogo di preghiera perché impuro o indegno, ma tutti sono spalla a spalla. Tutti aderiscono allo stesso Dio e tutti hanno il labbro puro quando pregano, anche se le loro invocazioni non sono forse formulate secondo i canoni necessari della ritualità. «Non dica lo straniero che ha aderito al Signore – sarà ancora la voce del Terzo Isaia al capitolo 56,3 –: certo il Signore mi escluderà dal suo popolo».
La seconda logica dell’accoglienza, dopo quella cultuale, è quella sociale; un tema, tra l’altro, che sentiamo attuale e che è continuamente all’ordine del giorno nella nostra società. Stiamo vivendo un’esperienza che per molti versi sarà epocale e che qualcuno definisce come qualcosa di simile a quando ci furono le grandi immigrazioni e migrazioni dei cosiddetti barbari. In fin dei conti quelle genti erano semplicemente altre popolazioni, con un differente tipo di società e di civiltà, che nello scontro venivano però concepite come diverse, come molto più primitive. Tra parentesi, ricordiamo che, se è vero che talvolta l’evoluzione registra diversità, tuttavia non dobbiamo dimenticare che spesso il concetto di progresso è veramente molto relativo.
Ebbene già nell’Antico Testamento, in diversi passi, troviamo un’importante ammissione che si estende poi anche a livello sociale e politico: «Vi sarà una sola legge per il nativo e per lo straniero che è residente in mezzo a voi» (Es 12,49). Unica è la legislazione quindi per l’ebreo e per lo straniero. Si potrebbe obiettare che dal punto di vista storico Israele probabilmente non ha messo in pratica questa norma, ma questo è un altro discorso. Molti, ancora ai nostri giorni, chiedono di evitare assolutamente di parlare di qualsiasi vaga idea di parità di diritti tra nativi e stranieri.
E questo è segno di paura. Tuttavia non ci dobbiamo dimenticare che la storia concreta ha il suo peso; la comprensione, quindi, è d’obbligo per capire meglio le ragioni dell’altro, sperando che ne abbia, e per giudicare le sue convinzioni non sempre e solo come primitive e istintive. Tuttavia, è necessario essere favorevoli e sostenitori di una cultura incline al dialogo e a uno stile multietnico, senza per questo scadere in una visione irenica che vede l’approccio tra i diversi popoli come una sorta di incontro facile, gioioso e danzato.
Anche nel mondo biblico ci troviamo di fronte a culture che spesso tra loro si respingono e che pongono gravi problemi di tipo sociale. Il principio da cui partire e la meta da raggiungere rimangono, comunque e sempre, non l’esclusione e il rigetto, ma lo spirito di accoglienza, anche se le forze dei popoli nella storia, andando oltre i nostri desideri, premono e risultano essere incontrollabili nel loro flusso e nel loro confronto concreto.
Nella Scrittura anche lo straniero ha diritto al rispetto, alla tutela, all’amore. In Lv 19,33-34, in un’opera che parla dei principi di purità, si legge: «Quando un forestiero dimorerà presso di voi, nel vostro paese, non gli farete torto. Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi. Tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto». E quanto questo testo dovrebbe far ricordare agli italiani il loro essere stati emigranti nei secoli scorsi! In questi due versetti è profondamente sottolineato il fatto che occorre amare lo straniero come se stessi, perché anche Israele ha provato cosa vuol dire essere straniero. Certo, qui si distingue tra il forestiero che è residente rispetto agli stranieri di tutto il mondo, però si osserva che la persona pur «diversa» che abita nella tua stessa via deve aver assicurata la stessa legge, lo stesso trattamento e la stessa tutela e persino l’amore.
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