La nostra particolare lettura dei vangeli dal punto di vista della sofferenza non può non iniziare che dai cosiddetti "racconti dell'infanzia" di Gesù, da noi solitamente collegati al Natale.
«Triste, malinconico, amaro Natale, anche quest'anno sei giunto a noi... »: questo verso iniziale di una lirica di un poeta francese sembra essere a prima vista solo provocatorio. Il Natale è, infatti, la festa per eccellenza della gioia. Si accendono le luci nelle nostre città; le notti sono squarciate dai festoni delle stelle luminose e dalle più volgari insegne al neon; le vie sono percorse dal filo musicale delle zampogne e dei dischi natalizi; si pensa ai regali e a cene sontuose; la civiltà dei consumi ci bombarda con mille segnali pubblicitari. Il Natale è come una tregua annuale in cui trionfano i buoni sentimenti, gli auguri di felicità prevalgono sulle imprecazioni e si moltiplicano tenerezze per i bambini.
In realtà, se dovessimo più attentamente leggere le pagine natalizie dei vangeli, raccolte nei capitoli d'apertura di Matteo e di Luca, scopriremmo che la luce, la pace e la gioia della nascita di Cristo sono striate da tanti segni oscuri di dolore, di amarezza e di paura. D'altra parte è noto che nei cosiddetti "vangeli dell'infanzia", attraverso una fitta serie di allusioni, si vuole far balenare nel ritratto del bambino Gesù già il volto del Cristo crocifisso e risorto. È curioso notare che nelle icone dedicate al Natale la scuola pittorica russa di Novgorod (XV secolo) sempre raffigurato Gesù bambino in una culla che aveva la forma di un sepolcro di marmo. Sul Natale si proietta già l'ombra della croce.
Sfogliamo, allora, le pagine del vangelo e andiamo alla ricerca di questo "Natale del dolore", dei suoi protagonisti, delle sue lacrime e persino del suo sangue. Nonostante la retorica sopra evocata, il Natale, infatti, è stato ed è ancor oggi un giorno di sofferenza. Dai quarantotto versetti di Matteo e dai centoventisette di Luca riservati alla nascita e alla prima infanzia del Cristo possiamo ritagliare alcune scene intense di sofferenza che ruotano proprio attorno al piccolo Gesù. Cominciamo da quella centrale del parto di Maria che avviene in una stalla.«Triste, malinconico, amaro Natale, anche quest'anno sei giunto a noi... »: questo verso iniziale di una lirica di un poeta francese sembra essere a prima vista solo provocatorio. Il Natale è, infatti, la festa per eccellenza della gioia. Si accendono le luci nelle nostre città; le notti sono squarciate dai festoni delle stelle luminose e dalle più volgari insegne al neon; le vie sono percorse dal filo musicale delle zampogne e dei dischi natalizi; si pensa ai regali e a cene sontuose; la civiltà dei consumi ci bombarda con mille segnali pubblicitari. Il Natale è come una tregua annuale in cui trionfano i buoni sentimenti, gli auguri di felicità prevalgono sulle imprecazioni e si moltiplicano tenerezze per i bambini.
In realtà, se dovessimo più attentamente leggere le pagine natalizie dei vangeli, raccolte nei capitoli d'apertura di Matteo e di Luca, scopriremmo che la luce, la pace e la gioia della nascita di Cristo sono striate da tanti segni oscuri di dolore, di amarezza e di paura. D'altra parte è noto che nei cosiddetti "vangeli dell'infanzia", attraverso una fitta serie di allusioni, si vuole far balenare nel ritratto del bambino Gesù già il volto del Cristo crocifisso e risorto. È curioso notare che nelle icone dedicate al Natale la scuola pittorica russa di Novgorod (XV secolo) sempre raffigurato Gesù bambino in una culla che aveva la forma di un sepolcro di marmo. Sul Natale si proietta già l'ombra della croce.
Anche se per noi il presepio è diventato ormai un segno di poesia e di tenerezza, in realtà le parole di Luca sono ben più severe: «Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia perché non c'era posto per loro nell'albergo» (Lc 2,7). Per tutta la sua vita Cristo resterà senza una casa propria; come egli dirà, non avrà neppure una pietra come guanciale per la notte. Subito aleggia la figura mostruosa di Erode, implacabile tiranno che, insospettito dai Magi, vuole spazzar via ogni minimo ostacolo al suo potere assoluto. Nella strage degli innocenti non è evocato solo il sangue versato da quella probabile decina di bambini di Betlemme. In un certo senso ha ragione la liturgia bizantina a farli diventare quattordicimila e il calendario siriaco a renderli sessantaquattromila o certe antiche tradizioni che li portano ai centoquarantaquattromila dell'Apocalisse: in queste vittime innocenti sono rappresentati infatti tutti gli innocenti sterminati, i cui nomi non sono registrati negli archivi delle polizie segrete e neppure in quelli di Amnesty International ma solo nel "libro della vita" di Dio.
Parallela a questa è la scena della fuga in Egitto. Gesù bambino con i suoi genitori è simile a uno dei molti profughi e rifugiati politici di tante regioni della terra e di tante epoche della storia. Il pittore Renato Guttuso nella Cappella della Fuga in Egitto del Sacro Monte di Varese ha voluto raffigurare Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù come una famiglia di profughi palestinesi, spauriti, costretti ad abbandonare la loro casa, errando nel deserto. Cristo condivide fin dalla nascita la sorte degli esuli, destinati ai campi-profughi. E anche quando Erode muore, lo spettro della paura non scompare: ritornando dall'Egitto, Giuseppe «seppe che re della Giudea era Archelao, figlio di Erode, ed ebbe paura di andarvi; si ritirò allora in Galilea», scrive Matteo (2,22).
Le ultime scene sono ambientate nel tempio di Gerusalemme e riguardano i primi giorni della vita di Gesù. Secondo le prescrizioni bibliche Maria, a quaranta giorni dal parto, deve essere purificata ritualmente attraverso il sacrificio di un agnello e di una colomba. Ai poveri, però, si concedeva uno sconto: bastavano solo due colombe. Ancora una volta, anche in questa occasione, la famiglia di Gesù entra nella categoria dei poveri e degli ultimi. Nessun sacerdote li accoglie con rispetto come avveniva per il rito di purificazione delle donne aristocratiche di Gerusalemme. In verità in quel giorno, all'interno del tempio, c'è una figura i cui occhi si illuminano davanti a quella modesta famiglia di provinciali che si aggirano nei cortili sacri. È Simeone, un anziano «giusto e timorato di Dio», un altro «povero del Signore».
Egli, però, pronunzia un doppio oracolo profetico sul destino del bambino e della madre, un destino di sangue e di sofferenza: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima» 2,34-35). Attorno al Cristo si scatenerà l'assalto del male e Maria stessa resterà coinvolta in questo duello tra bene e male. Alcuni scrittori cristiani antichi vedevano in quella spada l'annuncio della morte per martirio di Maria, la tradizione popolare vi ha creato l'immagine della Vergine Addolorata col cuore trapassato da una spada. Certo è che attorno ai protagonisti del Natale si addensano il dolore, il sangue, il rifiuto, la solitudine e la povertà.
Uno scritto cristiano apocrifo del III secolo, proveniente dall'Egitto e già da noi citato, mette in bocca a Gesù queste parole: «Io divenni molto piccolo e povero perché, attraverso la mia piccolezza, potessi portarvi in alto donde siete caduti. Io vi porterò sulle mie spalle». I dolori del Natale ci invitano a vivere i giorni natalizi uscendo un po' dal caldo delle nostre case in festa per cercare i veri protagonisti del Natale cristiano dispersi nel freddo delle strade, abbandonati nella solitudine della vecchiaia, umiliati dalla povertà e dall'odio, rinchiusi nei campi-profughi e schiacciati dalla violenza o dalla malattia. È in questi "piccoli" che si nasconde il vero volto del "piccolo" Gesù ed è attraverso loro che noi, forse soddisfatti e sazi, possiamo essere «portati in alto», accanto al "piccolo" di Betlemme.
(Fonte: Fino a quando, Signore? Un itinerario nel mistero della sofferenza e del male, San Paolo 2002, pp. 217-220)
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