III Domenica di Quaresima Anno C
(...) Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest'albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”». (...)
Ermes Ronchi: Che colpa avevano i diciotto uccisi dal crollo della torre di Siloe? E le vittime di terremoti, incidenti, malattie, sono forse più peccatori degli altri? La risposta di Gesù è netta: Non c'è rapporto alcuno tra colpa e disgrazia, tra peccato e sventura. Dice invece: Se non vi convertirete, perirete tutti. Nessuno si salva da solo. È tutta una società che si deve salvare insieme. Non serve fare la conta dei buoni e dei cattivi, bisogna riconoscere che è tutto un mondo che non va.
O ci salviamo tutti o periamo tutti: mai come oggi sentiamo attuale questo appello accorato di Gesù. Mai come oggi capiamo che tutto nell'universo è in stretta connessione: se ci sono milioni di poveri senza dignità né istruzione, sarà tutto il mondo ad essere privato del loro contributo; se la natura è sofferente, soffre e muore anche l'uomo.
Dobbiamo fondare vita e società su altre fondamenta che non siano la disonestà e la corruzione, la violenza del più forte, la prepotenza del più ricco. Convertirci al comando nuovo e ultimo di Gesù: «amatevi!» Amatevi, altrimenti vi distruggerete. Il vangelo è tutto qui. Senza, non ci sarà futuro. Alla serietà di queste parole fa da contrappunto la fiducia della piccola parabola del fico: il padrone pretende frutti, non li ha da 3 anni, farà tagliare l'albero. Invece il contadino sapiente, con il cuore nel futuro, dice: «ancora un anno di cure e gusteremo il frutto».
Dio della speranza: ancora un anno, ancora un giorno, ancora sole pioggia cure perché quest'albero, che sono io, è buono e darà frutto. Dio contadino, chino su di me, ortolano fiducioso di questo piccolo orto in cui ha seminato così tanto per tirar su così poco. Eppure continua a inviare germi vitali, sole, pioggia, fiducia. Per lui il frutto possibile domani conta più della mia sterilità di oggi. Lui crede in me prima ancora che io dica sì. Ama per primo, ama in perdita, ama senza contraccambio. Mi consegna un anticipo di fiducia, che mi conforta e mi incalza a serietà e impegno. A conquistare lo sguardo fiducioso di Dio verso gli altri, verso i figli ad esempio, che talvolta non capiamo, che finora non hanno prodotto frutto. Sono come il fico della parabola: ancora un poco e metteranno le gemme! Perché l'albero dei figli è buono, il seme seminato è buono, e allora germoglierà, pur tra le crisi. La fiducia dei genitori è come una vela per i figli, li sospinge in avanti.
La fiducia è profetica, realizza ciò che spera. Anche Gesù ha avuto la forza di non voler vedere subito i risultati, li ha soltanto sperati. Si è impegnato a essere credibile senza pretendere di essere creduto. Così faremo anche noi. E ciò che tarda verrà
(Letture: Esodo 3,1-8a. 13-15; Salmo 102; 1 Corinzi 10, 1-6.10-12; Luca 13, 1-9)
Vedi anche:
- Luciano Manicardi: http://www.monasterodibose.it/content/view/4893/1911/lang,it/
- Paolo Curtaz: http://paroledivita.myblog.it/archive/2010/03/05/iii-domenica-di-quaresima-c.html
- Cantalamessa:
La questione posta a Gesù circa quegli “alcuni”, uccisi da Pilato e da un crollo, aveva particolare risalto per il fatto che le due disgrazie erano avvenute in luoghi simbolo della protezione di Dio: il tempio e la piscina di Siloe. Per il tempio è facile capire subito la difficoltà; per la torre, che sorgeva accanto alla piscina di Siloe, meno facile. Ecco, la piscina di Siloe, costruita per avere acqua in città anche in caso di assedio, aveva acquistato il valore di un simbolo della protezione di Dio, come ben si ricava dal passo di Isaia 8,6. Il pensiero che la mente di quegli “alcuni” formulava circa gli avvenimenti riferiti a Gesù era che quegli uomini morti erano più peccatori di tutti; degli enormi peccatori. Così essi, “giusti”, potevano con tale giudizio conservare la certezza che non sarebbero mai stai toccati da sventura. Gesù annulla questo pensare dicendo che quelli uccisi da Pilato e dalla torre di Siloe non erano affatto più peccatori degli altri, e che non aveva alcun senso considerare quei due luoghi come luoghi di protezione. E poiché quelli che ponevano a Gesù la questione trovavano il segno della loro sicurezza di "giusti" proprio nel tempio, egli dice che se non si convertiranno periranno tutti allo stesso modo, cioè di spada e di distruzione. L’allusione alla distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani è chiarissima. Il rifiuto di colui per il quale Gerusalemme esisteva sarebbe stato fatale per la città; l’odio dei Romani per la fede nell’unico Dio si sarebbe scatenato su Gerusalemme. La violenza dimostrata dall’odio romano di Pilato non si sarebbe fermata e avrebbe invaso tempio e città: spada e distruzione avrebbero ucciso ovunque.
A questo proposito si deve dire che anche noi rimaniamo sorpresi di fronte a notizie che parlano di disgrazie avvenute in un luogo sacro. Ad esempio di fronte alla notizia che dei terroristi hanno falciato decine di fedeli in una chiesa. Oppure che una chiesa è stata bombardata, e dentro c’erano dei fedeli che pregavano. Rimaniamo sorpresi, poiché diciamo: "Ma una chiesa non è un luogo dove Dio dà la sua protezione?". E, allora? La risposta è che quando la violenza si scatena anche una chiesa può essere colpita con chi ci sta dentro. Ma chi è dentro una chiesa colpita sta pregando, si sta rivolgendo a Dio. Muore, ma pregando. C’è chi muore odiando e c’è chi muore pregando. Mistero poi l’ora della morte. Mistero del perché quella chiesa non è stata tutelata. Comunque una chiesa in sé - se vi si entra come un semplice luogo architettonico - non protegge nessuno, così come non ha nessuna efficacia sul demonio l’avere in mano un crocefisso, oppure un’immagine sacra; ha efficacia solo se il crocefisso è tenuto in mano con fede, quale segno della nostra fede e della forza a cui ci affidiamo. Si sa benissimo che tanti si sono visti spezzare in mano un crocifisso brandito senza la presenza di vera fede, di fede viva, davanti ad un posseduto. Ma, tornando alle morti in una chiesa, bisogna dire che l’ora della morte è un mistero. La morte può venire con un fulmine; anche lì, mistero dell’ora della morte. Gesù, allargando il discorso ai grandi fatti sociali, dice che se gli uomini non si affidano a Dio vanno incontro a catastrofi.
Dio vuole che portiamo frutto; ed è “lento all’ira e grande nell’amore”, accordandoci tempo per la conversione, ma ad un certo punto, come la parabola del fico ci dice, lascia che le cose ci colpiscano, e le catastrofi colpiscono anche i giusti, ma gli ingiusti colpiti dalle catastrofi odiano e maledicono, i giusti invece amano e benedicono.
Il mondo, fratelli e sorelle, dopo Cristo avrebbe dovuto conoscere, con la forza della testimonianza cristiana, un crescendo di pace, di concordia; invece le colpe di tanti cristiani hanno rallentato quest'opera. Le defezioni di masse cristiane hanno dato spazio all’odio, alle guerre; e allora la violenza si è scatenata, le chiese sono state bombardate, i cristiani perseguitati, uccisi. Ma i cristiani veri sono morti in Cristo, sono morti amando. I cristiani pieni di buio sono morti odiando. Altri sono morti con gradi di ostilità verso il nemico, ma sono pur morti in Cristo.
San Paolo ci dice che quello che accadde agli Israeliti nel deserto è per nostro ammonimento. Gli Israeliti avevano “una roccia” che li accompagnava, ma essi la scartarono, con le loro mormorazioni e ribellioni, e perciò Dio non si compiacque di loro e andarono perduti nel deserto. L’ammonimento vale per noi, dunque. Una società che scarta Cristo, la "roccia", la "pietra angolare", è destinata al fallimento, alla catastrofe.
A volte gli uomini credono che le loro opere rituali o filantropiche pieghino Dio a loro. Molti Israeliti agivano così, pensando che avere costruito un tempio al Signore, pur con il contributo di Erode il Grande, obbligava il Signore verso di loro. Pensavano anche, prima dell'esilio a Babilonia, che Dio avesse bisogno di mangiare, e che perciò i loro olocausti fossero indispensabili a Dio. Dio rispondeva per mezzo dei profeti che se avesse avuto fame non l’avrebbe chiesto a loro, essendo sue tutte le bestie della campagna e dei monti (Cf. Ps 49,12). Pensavano di legare a sé Dio, ritenendolo bisognoso dei loro olocausti. Ma Dio non ha bisogno di nulla: esso è beatissimo in se stesso, sufficientissimo a se stesso, luce fulgidissima a se stesso; chiede all'uomo amore perché in tal modo può donargli se stesso. Certo, è felice quando l’uomo accetta la felicità che egli gli vuole donare, ma se l’uomo non corrisponde non diminuisce la felicità che egli ha in se stesso; e poi, a compenso dell’infelicità datagli dal rifiuto di tanti, ha la felicità datagli da tanti che corrispondono. Dio è “Colui che è”; “Io sono colui che sono”, disse a Mosè. Dunque, Dio non è relativo all’uomo, ma è l’uomo che è relativo a Dio. Non Dio ha bisogno dell’uomo, ma l’uomo ha bisogno di Dio. Lui esiste eternamente, senza incominciamento, di per sé, noi esistiamo per lui. Dio liberissimamente ha creato l’uomo, e liberissimamente l’ha redento. L’uomo non ha diritti su Dio, ha solo da ricevere i doni gratuiti di Dio e corrispondervi. Dio ha invece diritti sull’uomo, il diritto di essere riamato avendo amato l’uomo senza misura.
Devono fruttificare quei doni! Se non fruttificano siamo noi ad essere perduti. Noi dobbiamo rendere conto a lui, non lui a noi. Dovremo rendere conto a chi per amore ci ha creati; a chi per infinito amore ci ha redenti; a chi ci ha chiesto solo di amarlo, lui che è infinitamente amabile.
Mosè vide un rovo con una fiamma che non nasceva dal rovo, ma era nel rovo. Il rovo, simbolo dell’umanità resa dal peccato un rovo; la fiamma, simbolo dell’amore di Dio, che vuole trasformare il rovo con la sua presenza. Mosè chiese a Dio il nome, poiché gli avrebbero chiesto questo gli Israeliti contaminati dal contatto con gli idoli d’Egitto. Vorranno il nome per poter essere dominatori di lui, per poterne avere i favori a loro piacimento. Infatti, conoscere il nome di un dio era per gli idolatri la capacità di condizionarlo a sé. Il nome che comunica Dio a Mosè è la dichiarazione che Dio non è condizionabile: egli è “Colui che è”.
Dio si dona, si fa conquistare, ma non è prono davanti all'uomo, ai comandi dell’uomo.
Dunque il tempio, la piscina di Siloe, non erano in se stessi la certezza della salvezza, erano solo un simbolo della volontà di salvezza di Dio per il suo popolo. E la salvezza non è garanzia di benessere sulla terra, ma garanzia di beatitudine eterna. Le chiese, la cupola di san Pietro a Roma, non sono in sé la garanzia della salvezza dai mali di questa terra, ma sono il segno di una salvezza che si basa su Cristo e sull’incontro con lui.
Certo, la salvezza di Cristo è protezione anche dai mali della terra, ma non protezione assoluta; infatti la croce visita, in varie forme, tutti.Appaiono ora più eloquenti e dolci le parole del salmo: “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia (...). Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore”. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.
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