lunedì 14 aprile 2014

Matteo 5,1-12: L'uomo delle beatitudini

Le beatitudini assumono nel vangelo di Matteo il valore di una Magna charta

Le beatitudini, presenti anche nel vangelo di Luca (6,20-23), assumono nel vangelo di Matteo il valore di una Magna charta. Esse acquistano un'importanza eccezionale e una rilevanza preminente all'interno dell'insegnamento di Gesù non solo perché sono collocate come un frontespizio nel primo dei cinque grandi discorsi (Mt 5,1-12), ma anche perché la loro forma, la loro scansione ritmata, e principalmente il loro contenuto fortemente evocativo rendono il testo di particolare incidenza per il lettore.
All'interno del vangelo di Matteo le beatitudini costituiscono il primo insegnamento di Gesù. I discepoli, dopo essere stati chiamati da lui a seguirlo per una comunione di vita e per la missione (14,18-22), risultano gli uditori privilegiati del suo insegnamento, poiché essi vengono descritti più vicini a lui e distinti dalla folla nell'ascolto della sua parola: «Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i discepoli» (5, 1). Tuttavia il discorso non è diretto esclusivamente al gruppo più ristretto dei discepoli, ma a tutti. Le folle nell'ascoltare, ma soprattutto nel vivere il discorso della montagna che ha come parte iniziale le beatitudini, entrano anch'esse a far parte del gruppo dei discepoli.
La beatitudine
Le beatitudini evangeliche affondano le loro radici religioso-spirituali nelle proclamazioni di esultanza che si ritrovano nella tradizione biblica, sia testi storici che profetici, ma particolarmente nei sapienziali e nei salmi (25 volte).
Si incontrano beatitudini che sono delle dichiarazioni di felicità umana: «Lia disse: "Per mia felicità! Perché le donne mi diranno felice". Perciò lo chiamò Aser» (Gn 30,13), o di esultanza spirituale: «Tu beato Israele! Chi è come te, popolo salvato dal Signore?».
Ciò che colpisce nel confronto tra le beatitudini dell'Antico Testamento e il testo matteano è la forma "seriale" di quest'ultimo. Sebbene nella tradizione biblica si ritrovino delle beatitudini multiple (Sal 84,4-5; 119,1-2; 128,1-2; Sir 14,1-2; 25,8-9), non si riscontra mai una sequenza così numerosa di dichiarazioni di felicità come nel testo del primo vangelo.
Il termine "beatitudine" è sinonimo di quella suprema felicità e realizzazione di se che la persona ottiene quando viene raggiunta dall' azione di Dio che si manifesta nel vangelo attraverso la persona e la missione di Gesù: «Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l'udirono» (Mt 13,16-17).
I poveri in spirito
Il destinatario della prima beatitudine è un gruppo caratterizzato come «i poveri in spirito». L 'espressione, così com'è riportata nel testo di Matteo, non si riscontra né nell' Antico né nel Nuovo Testamento.
La tradizione biblica per indicare il «povero» utilizza diversi termini ('āni;dal'ebjōnrâshmišken) che acquistano il loro valore a seconda del contesto e possono definire una povertà sia materiale che psicologico:spirituale. Nell’ esperienza biblica i poveri assumono un ruolo non certo irrilevante. Essi sono i destinatari della misericordia di Dio che si rende presente attraverso l'attenzione dei propri connazionali; ne sia un esempio il precetto, forse ideale, dell'anno sabbatico: «Per sei anni seminerai la tua terra e ne raccoglierai il prodotto, ma nel settimo anno non la sfrutterai e la lascerai incolta: ne mangeranno gli indigenti del tuo popolo» (Es 23,10-11; cf Lv 19,9; Dt 15,7-11).
Prendendo in considerazione la Bibbia greca (LXX) incontriamo il termine «povero» (ptōchôs) sette volte nei salmi (24,16; 39,18; 68,30; 69,6; 85,1; 87,16; 108,22), Si tratta sempre di un'affermazione del salmi sta sulla propria situazione: «Volgiti a me e abbi misericordia, perché sono solo e povero» (24,16), Il riconoscimento della propria miseria introduce e motiva la richiesta dell'aiuto di Dio o il ringraziamento per averlo ottenuto. La situazione di povertà non è data tanto dalla mancanza di mezzi materiali, quanto da circostanze di seria minaccia per la vita dell'uomo a causa dei nemici o de peccato. L’affermazione della propria povertà dimostra che colui che parlane è consapevole; perciò nell'invocazione salmica esprime il bisogno dell’aiuto di Dio e quindi la dipendenza da Lui.
Tra i profeti soltanto Amos e Isaia parlano in modo relativamente frequente dei «poveri». Il povero per loro è la persona oppressa e calpestata nella sfera sociale. In Isaia si possono distinguere due gruppi di testi. Nel primo i poveri sono descritti nella loro condizione di oppressi o sfruttati: «Voi avete devastato la vigna; le cose tolte ai poveri sono nelle vostre case» (Is 3,14); nel secondo viene ad essi annunciato un cambiamento totale che Dio opererà in vista della loro salvezza: «Gli umili si rallegreranno di nuovo nel Signore, i più poveri gioiranno nel Santo di Israele» (Is 29,19).
L 'espressione «poveri in spirito» che, dicevamo, non si ritrova nella tradizione biblica, compare invece negli scritti di Qumram (1 Qm, 14,7; cf 1QS III,8; IV ,3). Essi sono identificati con i «figli della luce», appellativo normalmente usato per indicare gli appartenenti alla comunità. Questa interpretazione rimane tuttavia ancora discussa tra gli studiosi.
Come si vede, assistiamo a un processo di spiritualizzazione all’interno della concezione biblica e giudaica, per cui il vero popolo non è soltanto l’indigente, bensì colui che, cosciente di sé, attende tutto da Dio. Di tale sviluppo porta la traccia l’espressione: «poveri in spirito», la cui portata può essere compresa anche attraverso l'analisi grammaticale. Infatti la locuzione «in spirito» si può intendere come dativo strumentale, per cui lo spirito, sia esso umano o divino, è ciò che induce e stimola alla scelta della povertà.
Anche se la povertà, come opzione, è prima di tutto materiale, non può però essere limitata a questa. Chi è bisognoso, ma pone tutta la sua speranza nei mezzi materiali, dimenticando la sua totale dipendenza da Dio, non appartiene al gruppo dei «poveri in spirito» .
In questo modo, attraverso lo studio del dato biblico, dei testi contemporanei al vangelo e dell'analisi grammaticale, possiamo giungere alla conclusione che «i poveri in spirito» sono coloro che sentendosi completamente dipendenti da Dio, e quindi non autosuffìcienti, vivono come «segno» una povertà materiale.
La beatitudine dei poveri in Matteo e in Luca
L'esegesi recente si è spesso soffermata nell'evidenziare le differenze tra la prima beatitudine di Matteo, «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli», e quella di Luca: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20).
A parte le piccole diversità nello stile e nell'uso del vocabolario, ciò che viene sempre messo in rilievo è il fatto che in Matteo il macarismo è rivolto al povero nella sua attitudine spirituale-religiosa; mentre in Luca il povero è beato per il semplice fatto di essere indigente, e non per un particolare atteggiamento etico. Questa affermazione però è vera solo in parte. Infatti la redazione lucana indirizza le beatitudini in modo evidente ai discepoli, e ciò non solo in quanto Gesù li menziona espressamente come esclusivi uditori (Lc 6,20), ma anche perché i macarismi sono costruiti indirizzandosi esplicitamente a loro.
È vero che Luca nelle beatitudini parla dei poveri in senso materiale, ma questo in quanto condizione vissuta dai discepoli. I poveri sono sì i bisognosi da un punto di vista economico, ma essi sono tali in quanto discepoli. Pertanto la vera povertà evangelica è data da una situazione economica, che tuttavia deve essere accompagnata e avvalorata da un'attitudine spirituale la quale conduce al riconoscimento di ciò che è l'essenziale:la sequela di Gesù.
La povertà e le beatitudini
Il testo delle beatitudini meraviglia il lettore anche per la sua unità letteraria e la sua compattezza stilistica. Il brano è formato da otto (o nove) dichiarazioni, tutte strutturate allo stesso modo. Sebbene molti affermino la suddivisione del testo in due strofe, non ci sono elementi sufficienti per sostenerla. Il brano risulta un blocco unico, in cui la struttura delle singole beatitudini si ripete sempre con lo stesso ritmo e nella stessa scansione, ad eccezione dell'ultima(vv .II -12).
L 'unità del testo è ancor meglio comprensibile se si comparano le singole beatitudini, che sono costruite tutte allo stesso modo e composte da una dichiarazione di beatitudine («Beati» ), un'indicazione del destinatario («i poveri in spirito»)e una motivazione dello stato di felicità («perché di essi è il regno dei cieli»).
Che il testo sia un tutto unitario lo si capisce anche dalla presenza dell'unica motivazione, «perché di essi è il regno dei cieli», sia nella prima che nell'ultima beatitudine (vv. 3,10). Sono gli unici due macarismi in cui l'azione di Dio, indicata come possesso del regno dei cieli, viene menzionata al presente e non al futuro (vv. 4 -9).
Si può così affermare che per comprendere il significato della prima beatitudine, non si può non tener conto di tutto il testo. Infatti essa può essere considerata come un titolo, un annuncio che acquista il suo senso e viene esplicitata proprio dalle beatitudini seguenti. Il discepolo non è invitato a scegliere, vivendo una sola delle nove beatitudini elencate, ma viene invece esortato a realizzare la pienezza della beatitudine, che avrà luogo soltanto se egli le vivrà nella loro totalità.
Nel secondo macarismo vengono menzionati «coloro che si affliggono» (Mt 5,4). Sono quelli che subiscono i contraccolpi di un mondo ancora sotto l'azione delle forze del male e della morte. Anch'essi appartengono al gruppo dei poveri, poi che si trovano nel dolore o nel tormento.
«I miti» (Mt 5 ;5); sul modello di Gesù il mite per eccellenza (Mt 11,29; 21,5), non sonò coloro che fanno qualcosa, ma piuttosto coloro che evitano di farla. Nel Salmo 37,7-9.11 il mite è colui che non si irrita, confida nel Signore, desiste dalla rabbia di fronte all'aggressore. Pertanto solo se si è poveri, avendo coscienza di aspettarsi tutto da Dio, si può vivere con mitezza, senza rivendicare, aggredire e sopraffare.
L' atteggiamento della povertà in spirito è basilare per poter essere «affamati ed assetati della giustizia» (Mt 5,6), dove la giustizia, secondo la teologia del primo vangelo, indica l'attuazione del piano di Dio, che deve essere compreso, interiorizzato e vissuto dal discepolo. Gli affamati e gli assetati della giustizia, spasmodicamente impegnati nella ricerca e nell'attuazione del progetto di Dio, diventerebbero come morti se non lo realizzassero, così come lo è un affamato o un assetato se non gli vien dato da bere e da mangiare. Solo chi è povero in spirito sa che tutto dipende da Dio e non spera altro che poter conoscere la sua volontà e compierla nella coscienza che per questo è stato creato.
Lo stesso vale per «i misericordiosi» (Mt 5,7), cioè per coloro che sono benevoli, che perdonano e vengono in aiuto dei bisognosi. La misericordia nasce proprio dalla coscienza della propria identità limitata e fallimentare, in altre parole dalla percezione della propria povertà. Colui che è consapevole di se stesso, dei propri limiti, del proprio fallimento, è anche colui che di fronte alle miserie e agli sbagli altrui è disposto a passarvi sopra, a perdonare, ad essere longanime e benevolo.
«I puri di cuore» (Mt 5,8) sono coloro che vivono in maniera integra. Questa attitudine ci viene spiegata nel Sal 24,3-4: «Chi salirà il monte del Signore, chi starà nel suo luogo santo?». Alla domanda il salmista risponde: «Chi ha mani innocenti e cuore puro». Segue una serie di atteggiamenti che descrivono l'integrità: «Chi non pronuncia menzogna, chi non giura a danno del suo prossimo...». Soltanto colui che vuole essere povero e vuole sottostare alla volontà di Dio è capace di vivere nell'integrità sia interiore che esteriore.
Vengono poi dichiarati «beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). Matteo di per se non vuole alludere soltanto agli statisti o ai politici, ma per lui la pace ha una dimensione feriale e quotidiana che interpella ogni uomo (Mt 5,23-26). Essa non è soltanto assenza di un conflitto bellico, ma è totalità, pienezza di vita e armonia. La pace proviene da Dio, tuttavia non può realizzarsi senza la collaborazione dell'uomo. L'essere operatori di pace implica ancora un atteggiamento di povertà. Vale a dire: chi costruisce la pace non lavora per difendere i propri interessi o i propri privilegi, ma dimentico di questi si prodiga per la costruzione di rapporti giusti ed equilibrati tra gli uomini.
Infine Matteo mostra un particolare interesse verso i «perseguitati», dedicandovi due beatitudini che sono tra loro parallele. Infatti nella prima si afferma: «Beati i perseguitati a causa della giustizia» e nella seconda: «Beati voi quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia». Viene a crearsi un parallelo tra «a causa della giustizia» e «a causa mia» , in cui la giustizia non è altro che il progetto di Dio che riceve la massima rivelazione nella missione di Gesù. La persecuzione acquista una rilevanza particolare poiché, grazie ad essa, in modo più forte e pregnante il discepolo è associato al crocifisso, il perseguitato e il povero per eccellenza.
Da questa analisi risulta che la prima beatitudine è importante non solo perché come un titolo ne apre la serie, in quanto costituisce l'atteggiamento basilare per poter vivere tutte le altre. Soltanto così è possibile godere la pienezza della beatitudine.
L'uomo delle beatitudini
La vera ragione per cui Gesù dichiara la beatitudine nei confronti dei poveri non è perché essi vivono in condizioni difficili e disagiate, ma perché sono raggiunti dall'azione di Dio che nel vangelo viene caratterizzata e qualificata come «regno».
Nei vangeli si trovano molte immagini associate al regno, ma di esso mai si dà un'esatta definizione. Il regno innanzitutto è l'ambito in cui Dio esercita la sua signoria. Non è quindi il prodotto di un'evoluzione storica, ma la sua origine è Dio stesso. Si tratta di una realtà in divenire che attende il suo compimento ultimo e finale proprio nel futuro escatologico. È annunciato da Giovanni: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (Mt 3,2); tuttavia raggiunge la sua pienezza nella persona stessa di Gesù: «Se io scaccio i demoni in virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio» (Mt 12,28). Il compito dell'annuncio del regno viene affidato come missione ai discepoli: «E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7), ma esso non si esaurisce nell'ambito della storia. Gesù infatti all'ultima cena si riferisce ad una comunione futura con i discepoli parlando di una commensalità nel regno: «lo vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt 26,29). Tre perciò sono le caratteristiche fondamentali del regno: la sua origine da Dio, la corresponsabilità umana e il suo aspetto dinamico di «già e non ancora».
È paradossale, ma con l'espressione «Beati i poveri in spirito, per che di essi è il regno dei cieli» si afferma che ai poveri, coloro che non possiedono, che non spadroneggiano, che non accaparrano, che non rivendicano, viene concesso da Dio il maggior bene esistente: il regno; e lo si dice in maniera enfatica, poiché non si afferma: «Essi appartengono al regno dei cieli», ma: «Di essi è il regno dei cieli».
Dall'analisi condotta possiamo concludere che le beatitudini costituiscono uno dei testi basilari per elaborare un'antropologia cristiana. il modello di uomo che da esse emerge si pone in evidente contrasto con le antropologie oggi correnti e vincenti. Il discepolo è colui che si riconosce creatura, quindi dipendente e limitato, e sperimenta così nel rapporto con Dio l'evento costitutivo del suo divenire persona.
Al di là di vocazioni particolari, il suo ruolo fondamentale nella storia è la costruzione del regno nella ricerca della volontà del Padre che si attua nel seguire Gesù. Questa esigenza è così assoluta e primaria che Gesù richiede la capacità di relativizzare qualsiasi realtà umana sia essa affettiva, familiare o economica. Ciò significa vivere la povertà. Essa non è frutto della costrizione altrui, ma è scelta libera che nasce dal primato della sequela. La povertà inoltre nelle relazioni umane diventa il modo migliore per vivere rapporti pacifici, integri, misericordiosi e giusti con gli altri. Essi nascono non dalla ricerca del proprio interesse, del proprio vantaggio ma dal vivere totalmente impegnati nella costruzione del regno.

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