«Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui».
Ad essere esaltata non può essere (ovviamente?) uno degli strumenti di morte più crudeli che l’umanità abbia creato. Ad essere esaltata è la Croce che Cristo ha trasformato da strumento di morte in strumento di vita, da strumento di vendetta a strumento di amore.
Così Dio aveva già fatto nell’Esodo: i serpenti avvelenavano e uccidevano un popolo sfiduciato e lamentoso. Al pentimento del popolo e all’intercessione di Mosè, Dio gli fa innalzare un serpente di bronzo su un palo perché chi lo vedesse potesse guarire. Gesù stesso ricorda a Nicodemo questo episodio, perché possa comprendere il gesto che stava per compiere.
Anche a noi, popolo sfiduciato e lamentoso, avvelenato dal peccato, Dio offre l’opportunità di guarire: guardando al Figlio che ha donato la vita per noi, siamo spinti ad uscire dal nostro egoismo, dai calcoli del nostro personale interesse.
Solo l’amore da senso e pienezza alla nostra vita, e se amiamo veramente non ci fermiamo davanti alle difficoltà, al prezzo da pagare: la nascita di un figlio procura sicuramente dolore al momento del parto, notti insonni successivamente, preoccupazioni per le malattie che avrà… ma tutto questo non impedisce di provare gioia per la vita che ci è affidata, per l’amore che doniamo e che, in mille modi, il bambino con tenerezza impara a ricambiare. Così le minacce, il pericolo costante, non ha impedito le tre suore violentate e trucidate in Burundi, di andare avanti ad amare quella gente che hanno servito fino a dare la vita. Non impedisce un prete come don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, movimento che lotta contro ogni mafia, di andare avanti nonostante le minacce ricevute.
Di seguito riproponiamo una lettera scritta
esattamente un anno fa da suor Bernardetta e pubblicata sul sito delle
missionarie.
«La Provvidenza mi ha fatto dono di incontrarmi con
diversi popoli e culture, di vedere panorami stupendi. Ho conosciuto persone
meravigliose; cristiani e credenti di altre religioni: volti che sfilano
davanti a me come una sequenza, facendomi rivivere lo stupore di avere
incontrato i semi del Vangelo già presenti.
L’Africa che ho incontrato ha rafforzato in me la
fiducia in Dio; mi ha colpita l’accoglienza cordiale, la gioia di condividere
con l’ospite il poco che c’è, la gioia dell’incontro, senza calcoli di tempo.
Da qualche anno mi trovo in Burundi a Kamenge, una
zona periferica molto popolata della città di Bujumbura. Sono contenta di
appartenere a questa comunità cristiana che è attenta e si fa vicina ai poveri.
E bello vedere al sabato e alla domenica le mamme delle comunità di base che si
avviano con i loro cesti sulla testa verso la prigione per visitare i
prigionieri e portare loro un po’ di cibo.
La Messa di domenica sera è frequentata
particolarmente da papà e giovani, che hanno avuto l’opportunità di una
giornata di lavoro, a volte mal pagato. Arrivano con i volti cotti dal sole e
le mani callose e corrose dal cemento. Osservo i loro volti che emanano la
serenità di chi sa che Gesù è in mezzo a loro e cammina accanto a loro.
L’annuncio di Gesù e dell’amore misericordioso del
Padre diventa comprensibile se accompagnato dalla testimonianza di vita.
Occorre nutrire in noi uno sguardo di simpatia, rispetto, apprezzamento dei
valori delle culture, delle tradizioni dei popoli che incontriamo. Questo
atteggiamento, oltre che dare serenità al missionario, aiuta a trovare più
facilmente il linguaggio e i gesti opportuni per comunicare il Vangelo.
La prima sfida che ci interpella mi sembra sia la
difesa di popoli umiliati, calpestati nei loro diritti, la denuncia dello
sfruttamento dei beni di questi Paesi. È pure pressante il problema
dell’alfabetizzazione, via maestra per la lotta contro la povertà. L’Africa ha
bisogno di giustizia, di maggior equità e di buongoverno.
Nonostante la situazione complessa e conflittuale dei
Paesi dei Grandi Laghi, mi sembra di percepire la presenza di un Regno d’amore
che si va costruendo, che cresce come un granello di senape, di un Gesù
presente donato per tutti. A questo punto del mio cammino continuo il mio
servizio ai fratelli africani, cercando di vivere con amore, semplicità e
gioia».
Battezzare il proprio figlio significa
immergerlo, farlo entrare in questo progetto d’amore. Offrirgli una famiglia
che non si limita ai propri genitori e ai propri parenti, ma che è la Chiesa
intera, comunità che lo accoglie, lo accompagna, lo alimenta spiritualmente…
Battezzarlo significa inserirlo nella
realtà di un Dio che è Padre e che si è rivelato nel Figlio e si fa
sperimentare nello Spirito che il Figlio ci dona; una realtà di amore
incondizionato: quello di un Dio che ha condiviso la nostra condizione umana e
si è compromesso per la realizzazione del Regno fino alla fine. Sulla croce,
Cristo risorto oggi, ha dato la sua vita per noi.
C’è una doppia faccia della croce: da una
parte c’è il crocifisso, il dolore, la violenza, la morte atroce. Dall’altra c’è
il Risorto, il glorificato, il Figlio che ci apre alla vita eterna, che ci
prepara un posto in Paradiso e ci ricorda che l’ultima parola della nostra
esistenza non è la morte, ma la vita eterna, non è la sofferenza del passaggio,
ma la beatitudine dell’ultima meta.
Dobbiamo esaltare Cristo che, avendo amato
i suoi, ci ha amati fino alla fine (Gv 13,1). Dobbiamo esaltare Dio
che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché tutti abbiano la vita nel suo
nome (Gv 3, 16 e Gen 22, 2).
Dio stesso ha voluto diventare uno di noi,
anche nella sofferenza e nel dolore dell'anima. Un Dio che ci circonda con il
suo amore estremo, infinito, dimostrato non in grandi misteri, in una teoria
raffinata e complicata, ma nella verità e nella vita.
Ogni volta che ci facciamo il segno della
croce invocando la Santissima Trinità ricordiamo questo mistero. Per questo
esponiamo la croce nelle nostre chiese, case, luoghi di lavoro, su di noi,
mostriamo che un Dio ha dato la sua vita per noi, trasformando la croce in
segno di salvezza.
Il cristiano sa, attraverso la croce, che
la nostra limitatezza mai sarà capace, mai sarà sufficiente per contemplare
tutta questa immensità d'amore. Ma lì, sulla croce, possiamo sperimentare
l'amore. E l'unica chiave per comprendere la nostra esistenza è certamente
l'amore: solo l'amore spiega la nostra vita e ci sollecita alla vita. Così
celebriamo la festa dell'Esaltazione della Croce, o la festa dell'Esaltazione
dell’Amore supremo.
Dio ha tanto amato. È questo il cuore
ardente del cristianesimo, la sintesi della fede. «Noi non siamo cristiani
perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama» (L. Xardel).
La salvezza è che Lui mi ama, non che io
amo Lui. L'unica vera eresia cristiana è l'indifferenza, perfetto contrario
dell'amore. Invece «amare tanto» è cosa
da Dio, e da veri figli di Dio. E penso che ogni volta che una creatura ama
tanto, in quel momento sta facendo una cosa divina.
Ha
tanto amato il mondo da dare: amare non è una emozione, comporta un
dare, generosamente, illogicamente, dissennatamente dare. E Dio non può dare
nulla di meno di se stesso (Meister Eckart).
Dio non ha mandato il Figlio per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Mondo salvato, non condannato. Ogni volta che temiamo condanne, per noi stessi per le ombre che ci portiamo dietro, siamo pagani, non abbiamo capito niente della croce. Ogni volta invece che siamo noi a lanciare condanne, ritorniamo pagani, scivoliamo fuori, via dalla storia di Dio.
Mondo salvato, con tutto ciò che è vivo in esso. Salvare vuol dire conservare, e niente andrà perduto: nessun gesto d'amore, nessun coraggio, nessuna forte perseveranza, nessun volto. Neppure il più piccolo filo d'erba. Perché è tutta la creazione che domanda, che geme nelle doglie della salvezza.
Perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Credere a questo Dio, entrare in questa dinamica, lasciare che lui entri in noi, entrare nello spazio divino «dell'amare tanto», dare fiducia, fidarsi dell'amore come forma di Dio e forma del vivere, vuol dire avere la vita eterna, fare le cose che Dio fa, cose che meritano di non morire, che appartengono alle fibre più intime di Dio. Chi fa questo ha già ora, al presente, la vita eterna, una vita piena, realizza pienamente la sua esistenza.
Dio non ha mandato il Figlio per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Mondo salvato, non condannato. Ogni volta che temiamo condanne, per noi stessi per le ombre che ci portiamo dietro, siamo pagani, non abbiamo capito niente della croce. Ogni volta invece che siamo noi a lanciare condanne, ritorniamo pagani, scivoliamo fuori, via dalla storia di Dio.
Mondo salvato, con tutto ciò che è vivo in esso. Salvare vuol dire conservare, e niente andrà perduto: nessun gesto d'amore, nessun coraggio, nessuna forte perseveranza, nessun volto. Neppure il più piccolo filo d'erba. Perché è tutta la creazione che domanda, che geme nelle doglie della salvezza.
Perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Credere a questo Dio, entrare in questa dinamica, lasciare che lui entri in noi, entrare nello spazio divino «dell'amare tanto», dare fiducia, fidarsi dell'amore come forma di Dio e forma del vivere, vuol dire avere la vita eterna, fare le cose che Dio fa, cose che meritano di non morire, che appartengono alle fibre più intime di Dio. Chi fa questo ha già ora, al presente, la vita eterna, una vita piena, realizza pienamente la sua esistenza.
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