venerdì 11 novembre 2011

Matteo 25,14-30: LA PARABOLA DEI TALENTI

XXXIII Domenica Tempo ordinario-Anno A

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro (...)».

Ermes Ronchi:
Dai protagonisti della parabola emergono due visioni opposte della vita: l'esistenza, e i talenti ricevuti, come una opportunità; oppure l'esistenza come un lungo tribunale, pieno di rischi e di paure. I primi due servi entrano nella vita come in una possibilità gioiosa; l'ultimo non entra neppure, paralizzato dalla paura di uscirne sconfitto. La parabola dei talenti è il poema della creatività, senza voli retorici, perché nessuno dei tre servi crede di poter salvare il mondo. Tutto invece odora di casa, di viti e di olivi o, come nella prima lettura, di lana, di fusi, di lavoro e di attesa. Di semplicità e concretezza. Ciò che io posso fare è solo una goccia nell'oceano, ma è questa goccia che dà senso alla mia vita (A. Schweitzer). Il Vangelo è pieno di una teologia semplice, la teologia del seme, del lievito, di inizi che devono fiorire. A noi tocca il lavoro paziente e intelligente di chi ha cura dei germogli. Dio è la primavera del cosmo, a noi il compito di esserne l'estate feconda di frutti. Leggiamo bene il seguito della parabola: Dio non è un padrone che rivuole indietro i suoi talenti, con in aggiunta quelli che i servi hanno guadagnato. Ciò che i servi hanno realizzato non solo rimane a loro, ma è moltiplicato un'altra volta: «Sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto». Il padrone non ha bisogno di quei dieci o quattro talenti. I servi vanno per restituire, e Dio rilancia: e questo accrescimento, questo incremento di vita, questa spirale d'amore crescente è l'energia segreta di tutto ciò che vive. Noi non viviamo semplicemente per restituire a Dio i suoi doni. Ci sono dati perché diventino a loro volta seme di altri doni, lievito che solleva, addizione di vita per noi e per tutti coloro che ci sono affidati. Non c'è neppure una tirannia, nessun capitalismo della quantità. Infatti chi consegna dieci talenti non è più bravo di chi che ne consegna quattro. Le bilance di Dio non sono quantitative, ma qualitative. Non ci sono dieci talenti ideali da raggiungere: c'è da camminare con fedeltà a ciò che hai ricevuto, a ciò che sai fare, là dove la vita ti ha messo, fedele alla tua verità, senza maschere e paure. La parabola dei talenti è un invito a non avere paura della vita, perché la paura paralizza, perché tutto ciò che scegli di fare sotto la spinta della paura, anziché sotto quella della speranza, impoverisce la tua storia. La pedagogia del Vangelo offre tre grandi regole di maturità: non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura. Soprattutto da quella che è la paura delle paure, la paura di Dio.

Io:
- il valore del talento (moneta pari a circa 26 Kg di argento, guadagno di circa 20 anni di lavoro "ordinario");
- di fronte ad un bene così ampio non importa se i talenti affidati siano 1 o 2 o 5, ma l'uso che ne viene fatto (e il rapporto di fiducia col padrone);
- il terzo servo, quello che riceve 1 talento, formalmente non ha nessuna colpa: riceve un talento e, al ritorno del padrone, è pronto a riconsegnarlo. Per fare questo lo ha messo al sicuro nascondendolo sotto terra;
- qual'è il problema? Cosa fa di lui un servo "malvagio e pigro" meritevole di "pianto e stridore di denti"?
- Per rispondere occorre riflettere su cosa rappresenti il simbolo del talento: cosa riceviamo di inestimabile valore? Si, la vita stessa. E' di questa che ci viene chiesto conto: "Cosa hai fatto della tua vita"?
- Se la risposta è "Ho avuto paura"... "l'ho nascosta sotto terra"... te la restituisco così come me l'hai data, senza avergli dato uno scopo, un senso, nè per me nè per gli altri, inerte, sterile, vuota... ci stupiamo allora della risposta dura del padrone?
- "Ho avuto paura di te...": ricorda un'altra paura biblica: quella di Adamo dopo il peccato. Era in armonia con Dio, con Eva, con il creato. Dopo il peccato originale questo rapporto si rompe, ha improvvisamente paura della sua nudità e per questo si nasconde; Dio diventa un avversario duro di cui avere paura, la donna qualcuno su cui scaricare le colpe, il creato un motivo di fatica e sudore.
- Gli altri servi sono invitati a prendere parte della sua gioia, ad avere autorità su molto (non importa se ha guadagnato 2 o 5 talenti: la risposta e la promessa è la stessa). Si sono sentiti in dovere e forse nel piacere di far fruttificare i talenti ricevuti. Si sono comportati più da figli che da servi e ora vengono ricambiati come figli più che come servi.

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