mercoledì 2 novembre 2011

Mt 8, 23-27: Una fede insufficiente

«In quel tempo, essendo Gesù salito su una barca, i suoi discepoli lo seguirono. Ed ecco scatenarsi nel mare una tempesta così violenta che la barca era ricoperta dalle onde; ed egli dormiva. Allora, accostatisi a lui, lo svegliarono dicendo: "Salvaci, Signore, siamo perduti!". Ed egli disse loro: "Perché avete paura, uomini di poca fede?". Quindi levatosi, sgridò i venti e il mare e si fece una grande bonaccia. I presenti furono presi da stupore e dicevano: "Chi è mai costui al quale i venti e il mare obbediscono?"» (Mt 8, 23-27).

Carlo Maria Martini:
Abbiamo già citato la pagina evangelica della liturgia di oggi, quando abbiamo sentito Paolo ricordare a Timoteo che non gli è stato conferito uno spirito di timore, di viltà o di smarrimento (deilias). E ritroviamo infatti nel racconto evangelico la stessa radice greca: «Perché avete paura?», perché siete timidi, vili, smarriti? Il brano evangelico odierno ci aiuta ad approfondire che cosa significa l'attitudine pratica a ricondurre tutto al primato di Dio e di Cristo.

Paura nella tempesta

Ci troviamo di fronte allo scatenarsi nel mare di un «sisma» - dice il testo greco -, un movimento così violento che la barca era coperta dalle onde. Una tempesta è una situazione negativa incontrollabile, a cui umanamente non si sa come fare fronte. Essa può significare una situazione incontrollabile interiore, quando si entra in una sarabanda, in una fantasmagoria di emozioni negative, di angosce, di ira, di frustrazione, di ripugnanza, di disperazione da cui non si sa più come salvarsi; si è in balìa di qualcosa di più forte di noi, che non si sa come padroneggiare.

Può indicare pure una situazione esteriore sociale, civile, ecclesiastica, una situazione di forze contrastanti impazzite, che agitano da ogni parte la nostra barca, sia essa la nostra persona o la nostra comunità o gruppo sociale o nazione. Di queste tempeste, di tali forze impazzite contrastanti è piena la storia, anche contemporanea. Così per esempio la situazione della ex Jugoslavia o di alcuni Paesi del Centro Africa.

In una simile realtà, nella quale sono entrati gli apostoli, Gesù dorme e poi, svegliato, grida: «Perché avete paura, uomini di poca fede?». Rimprovera così la stessa viltà e sconforto che abbiamo visto rimproverati a Timoteo da parte di Paolo. E comprendiamo che questa paura e viltà sono relative alla poca fede, sono frutto di poca fede. Gesù non accusa semplicemente il distacco fede-vita; piuttosto la poca fede, la fede scarsa, insufficiente, più piccola di quel grano di senapa che sposta le montagne.

La poca fede

In che cosa consiste la poca fede, che poi genera paura (paura vana - dice Gesù -, pur di fronte a tempeste che apparentemente non si possono dominare)? Possiamo identificarla col volersi salvare da soli, col non riconoscere il primato di Dio come salvatore; e quindi col collocare direttamente, di fatto (anche se è altrimenti a parole), ogni speranza in se stessi. La fede è allora solo in fondo, come uscita di sicurezza, se proprio le cose van male.

Così hanno fatto gli apostoli: prima hanno messo ogni speranza nelle proprie forze, si sono fidati di farcela - altrimenti non avrebbero affrontato il mare -; alla fine, quando le cose non vanno, viene anche l'invocazione a Gesù. E esattamente il contrario del primato di Dio, è l'ul-timità di Dio. Non si è cominciato da lui, ma si arriva a lui per disperazione.

Dunque il riconoscimento del primato di Dio è appunto la fede. Intendere la fede che Gesù chiede come l'attesa di una salvezza dalla tempesta comunque, non sarebbe credere, ma tentare Dio. Gesù aveva rifiutato di gettarsi dal pinnacolo del tempio aspettandosi di essere in ogni caso salvato, perché avrebbe significato tentare Dio (cfr. Mt 4). E la stessa esperienza degli apostoli ci dice che Dio non li salverà, un giorno, dalla morte. Ciò che Dio promette è la salvezza dal timore della morte: «Non temete coloro che possono uccidere il corpo» {Mt 10,28).

L'affermare il primato di Dio, non consiste nel ritenere che Dio comunque penserà a darmi la salvezza che attendo. E non consiste neppure nel rifiuto di darsi da fare; Gesù non rimprovera gli apostoli perché si sono dati da fare con la barca, con i remi. Rimprovera qualcosa di molto più sottile, delicato e fine, non riducibile a formule.

«So a chi ho creduto»

Che cosa chiede allora Gesù in positivo, come vera fede, fede non piccola? Lo possiamo esprimere ancora con le parole della seconda Lettera a Timoteo: «So a chi ho creduto» (1, 12). Non aspetto la salvezza comunque; non cesso di darmi da fare; né mi impegno, mettendo Dio per ultimo. Fin dall'inizio so a chi ho creduto e per questo fin dall'inizio vivo senza sosta e con pace la mia lotta contro ogni forma di autogiustificazione, nella certezza che anche le situazioni apparentemente insostenibili, incontrollabili, sono realtà in cui Dio ci ha posto.

Ecco la grazia della fede che domandiamo per noi e che chiediamo di trasmettere, quella che ci dà pace, ci conforta nelle tribolazioni, ci accompagna nelle oscurità, ci sostiene nelle debolezze e nelle frustrazioni; ci permette di affrontare le tempeste della vita, della Chiesa, del ministero, della vita sociale, economica e politica, non con ricette già preparate, ma con il cuore pacificato dal riconoscimento del primato di Dio. E tale primato che la liturgia ci invita oggi a riconoscere dando a Dio solo onore, lode e gloria per mezzo di Gesù Cristo e della sua morte e risurrezione.

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