Sono
180 versetti distribuiti in quattro capitoli, due posti in apertura al Vangelo
di Matteo e due sulla soglia di quello di Luca. Pagine che hanno generato un
ininterrotto filo d’oro artistico, letterario, musicale e che sono state
assediate da una vera e propria selva bibliografica esegetica. Racconti che si
muovono sul binario della narrazione, dotata di uno straordinario montaggio
quasi filmico, e su quello della teologia, tant’è vero che sottese a esse
incontriamo due nuclei capitali della professione di fede cristiana: da un lato,
la discendenza storica davidica e, quindi, messianica
di Gesù di Nazaret e, d’altro lato, la sua concezione
verginale per opera dello Spirito Santo e, di conseguenza, la divinità filiale
dello stesso Cristo. È ciò che san Paolo pone sul frontone del suo capolavoro
teologico, la Lettera ai Romani: «l’evangelo di Dio, promesso per mezzo dei suoi
profeti nelle Sacre Scritture, riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide
secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di
santità» (1, 2-4). Stiamo parlando dei cosiddetti “Vangeli dell’infanzia” ai
quali Joseph Ratzinger - Benedetto XVI ha dedicato la terza e ultima tavola del
suo trittico su Gesù di Nazaret (L’infanzia di Gesù,
Milano - Città del Vaticano, Rizzoli – Libreria Editrice Vaticana, pagine 176,
euro 17).
Nella premessa egli ci propone una metafora descrittiva per definire
questa sua analisi dell’infanzia di Gesù: siamo come nella «sala d’ingresso» di
quella solenne architettura già perlustrata nei due volumi precedenti che
mettevano in scena la vita pubblica di Cristo e la sua morte con l’approdo alla
gloria della risurrezione. In questo spazio iniziale, però, già si proiettano le
ombre e le luci successive: la persecuzione di Erode con la strage degli
innocenti è riverberata dal sangue della croce, l’intera Gerusalemme è sconvolta
per la notizia della nascita del Bambino, come lo sarà nell’atto supremo del
rifiuto finale, i tre giorni trascorsi da Gesù dodicenne nel tempio sembrano
prefigurare il triduo della tomba, e l’arte delle icone di Novgorod (XV secolo)
ha creato il modulo poi popolare di rappresentare la mangiatoia in cui è deposto
il neonato Gesù come il sepolcro o anche l’altare ove “si mangia” il corpo di
Cristo eucaristico, per usare una curiosa allegoria della “mangiatoia” evocata
da sant’Agostino. È proprio con la tecnica quasi cinematografica
dell’anticipazione che Benedetto XVI apre il suo libro: nella “sala d’ingresso”
fa risuonare una domanda che echeggerà più oltre sotto le volte del pretorio
romano di Gerusalemme, quando il governatore Pilato interpellerà l’imputato
Gesù: Póthen ei sy; «Di dove
sei tu?» (Giovanni, 19, 9). Questa domanda dal sapore meramente anagrafico si
riveste per il quarto Vangelo di un ammiccamento trascendente ulteriore. È per
questo che l’interrogativo serpeggerà altrove nei Vangeli, ed esso ha la sua
risposta proprio in questi 180 versetti che ora il Papa perlustra in un
itinerario puntuale, ma trasparente e quasi narrativo. La trama è semplice: nel
racconto di Luca, ove la scansione delle scene privilegia Maria, le annunciazioni e le nascite del precursore Giovanni Battista
e di Gesù si appaiano, con tutte le differenze che le connotano; l’annunciazione
è, invece, rivolta a Giuseppe, il padre legale del Bambino, secondo la
narrazione di Matteo, che ha come estuario finale il quadro grandioso dei Magi
col successivo esodo-fuga in Egitto e il relativo esodo-ritorno. Noi ora
vorremmo, però, individuare i fili interpretativi che Benedetto XVI dipana
all’interno della sua lettura di quei testi. Se conserviamo la metafora edilizia
iniziale, potremmo parlare, più che di una sala, di una vera e propria
planimetria architettonica a più stanze che richiedono diverse chiavi di
accesso. È la metafora che adottava Origene, lo
scrittore cristiano del III secolo, per definire la sua esegesi delle Sacre
Scritture: sono come tante aule davanti alle quali c’è una chiave, ma non è
quella giusta perché sono state scambiate e confuse; è, dunque, necessario
verificarle a più riprese. È evidente il riferimento al conflitto delle
interpretazioni che già allora vigeva e che si è ramificato nei secoli
successivi. Ecco, allora, le principali chiavi ermeneutiche (si dice appunto “la
chiave di un testo” per la sua decifrazione) proposte da Ratzinger per i Vangeli
dell’infanzia. La prima e primaria è quella che fa ruotare in interazione
“storia e fede”, sulla base anche dell’asserto centrale del cristianesimo: il
Lògos eterno e infinito che è Cristo Dio diviene anche
sarx, «carne», contingenza, temporalità, finitudine,
mortalità, umanità. Ecco, quindi, di fronte a questi racconti dal taglio
originale rispetto a quello delle altre pagine evangeliche, la domanda: «Si
tratta veramente di storia avvenuta, o è soltanto una meditazione teologica
espressa in forma di storia?». Ogni quadro dell’infanzia di Gesù è sottoposto,
perciò, dal Papa a un’essenziale verifica di storicità, anche perché molti
esegeti hanno optato, invece, per una chiave “midrashica” per cui saremmo in presenza di una sorta di
narrazione parabolica (l’ebraico midrash) attorno a
temi, tesi, testi biblici e cristiani, una specie di drammatizzazione narrativa
di verità teologiche. La chiave impugnata da Benedetto XVI è diversa: si tratta
di «avvenimenti storici il cui significato è stato teologicamente interpretato
dalla comunità cristiana e dai Vangeli». E ancora: «Gesù non è nato e comparso
in pubblico nell’imprecisato “una volta” del mito. Egli appartiene a un tempo
esattamente databile e a un ambiente geografico esattamente indicato:
l’universale e il concreto si toccano a vicenda». Non per nulla nei testi
abbondano i rimandi alle coordinate geopolitiche, destinate a far esercitare
l’acribia dell’esegesi storico-critica, da Betlemme a Nazaret, da Augusto a Erode, dal tempio di Gerusalemme col
suo culto al censimento imperiale di Quirinio. E a
sostegno di questa storicità egli propone la suggestiva classificazione dei
racconti sotto il genere delle “tradizioni familiari”, vero e proprio
«fondamento giudaico-cristiano proveniente dalla tradizione della famiglia di
Gesù». Nell’antico Vicino Oriente questi memoriali storici clanico-familiari
avevano un rilievo tale da essere considerati simili a patrimoni, custoditi con
fedeltà, ma anche duttilità nelle pagine vive della fertile memoria corale. C’è,
però, di più: in questi eventi storici strutturali si incrocia anche il
trascendente e questo contatto fa scattare scintille a livello di
interpretazione. In una pagina molto potente il Papa rimanda al grande teologo
protestante Karl Barth il quale definiva nettamente i
due punti in cui Dio interviene nel mondo materiale: la nascita di Gesù dalla
Vergine e la sua risurrezione dal sepolcro. E commenta: «Questi due punti sono
uno scandalo per lo spirito moderno. A Dio viene concesso di operare sulle idee
e sui pensieri, nella sfera spirituale, ma non nella materia (...) Ma se Dio non
ha anche potere sulla materia, allora egli non è Dio». Come è chiaro, divino e
storico s’incontrano in un unico crocevia ed esigono, quindi, un’interpretazione
congiunta tra teologia e storia. C’è una seconda chiave che ci viene messa tra
le mani ed è quella del nesso tra “storia e profezia”: è noto, infatti, che
Matteo costruisce il suo edificio narrativo dell’infanzia di Gesù su una
sequenza di citazioni bibliche. Si crea, così, un contrappunto tra profezia ed
evento. Ratzinger usa una bellissima formula: chiama gli annunci profetici
«parole in attesa» di ricevere la loro decifrazione piena, il loro
“protagonista”. Quelle parole in sé germinali, sbocciano in Cristo, come nel
celebre caso dell’oracolo di Isaia (7, 14) sulla “giovane / vergine” che genera
l’Emmanuele. Perciò, «nella storia di Gesù, le parole
antiche diventano realtà (...) e la storia di Gesù proviene dalla Parola di Dio,
sostenuta e tessuta da essa». Si può anche allargare questo sguardo
retrospettivo oltre le profezie bibliche e - come fa Benedetto XVI - applicarlo
analogicamente alla famosa quarta ecloga di Virgilio con le sue immagini
generazionali spesso rilette in chiave cristiana, e persino - sia pure per
superamento - si può rimandare all’iscrizione augustea di Priene (anno 9 prima dell’era cristiana) ove ci si imbatte
in un lessico riletto dal cristianesimo («salvatore, pace, ecumene, vangelo»):
forse «i sogni segreti e confusi dell’umanità di un nuovo inizio si sono
realizzati nell’avvenimento di Cristo, in una realtà come solo Dio poteva
creare». La figura dei Magi diventa, al riguardo, emblematica: «essi
rappresentano l’incamminarsi dell’umanità verso Cristo, inaugurano una
processione che percorre l’intera storia». Ed eccoci alla terza chiave tra
quelle che il libro ci offre. Fin dalla premessa, Papa Ratzinger ricorda uno dei
capisaldi dell’attuale (ma anche tradizionale) narratologia: in azione sono due
attori, “l’autore e il lettore”. Soprattutto di fronte a testi performativi e
non meramente informativi come sono quelli religiosi, il puro movimento
“centripeto” (“che cosa essi dicono in sé”) deve coniugarsi con un percorso
“centrifugo” che giunge fino alla periferia dell’oggi (“che cosa essi dicono per
me”). È su questa base che le pagine di Benedetto XVI sono costantemente
intarsiate di interpellanze rivolte al lettore, un po’ come suggeriva Flaubert
per il quale leggere non deve solo divertire o istruire, ma deve essere anche
guida per il vivere. Così, tanto per esemplificare, il rapporto tra fede e
politica è ripreso nel suo duplice profilo: «A volte, nel corso della storia, i
potenti di questo mondo attraggono a sé il regno di Dio; ma proprio allora esso
è in pericolo: essi vogliono collegare il loro potere col potere di Gesù, e
proprio così deformano il suo regno, lo minacciano. Oppure esso è sottoposto
all’insistente persecuzione da parte dei dominatori che non tollerano alcun
regno e desiderano eliminare il re senza potere, il cui potere misterioso,
tuttavia, essi temono». O ancora, ecco l’applicazione della tragedia dei bambini
trucidati da Erode sulla quale incombe il lamento materno della Rachele biblica:
«Nella nostra epoca storica rimane attuale il grido delle madri verso Dio, ma al
contempo la risurrezione di Gesù ci rafforza nella speranza della vera
consolazione». C’è un quarto e ultimo criterio, corollario del precedente e
apparentemente formale. Esso, però, si rivela una vera e propria chiave
ermeneutica, nella consapevolezza che il mezzo linguistico è un rilevante
strumento interpretativo. Intendiamo riferirci allo stile adottato da Ratzinger
- Benedetto XVI nella sua analisi di questi testi evangelici. A differenza di
molti teologi che si avvolgono nel manto dell’autoreferenzialità linguistica,
striata di oscurità esoterica e oracolare, invalicabile alla «gente che non
conosce la Legge» (Giovanni, 7, 49), egli ricorre a un linguaggio sempre
limpido, essenziale, incisivo, persino umile («una spiegazione pienamente
convincente di questo finora non l’ho trovata»), com’è tipico anche della sua
persona. Prima est eloquentiae virtus perspicuitas, insegnava
quel maestro di retorica che era Quintiliano, convinto
che la limpidità di discorso fosse la prima virtù dell’eloquenza. Ratzinger
mette in pratica quel principio che Wittgenstein aveva coniato (ma poco seguito)
nel suo Tractatus logico-philosophicus: «Tutto quello che si può dire, si può
dire chiaramente», e già quel grande oratore che era san Bernardino da Siena
ammoniva che «colui che parla chiaro, ha chiaro l’animo suo». Questa virtù, per
altro, è richiesta dall’oggetto stesso di quei 180 versetti, che hanno al centro
un Bambino che nasce da «una giovane donna ignota, in una piccola città ignota,
in un’ignota casa privata. Il segno della Nuova Alleanza è l’umiltà, il
nascondimento». Alla nostra semplice ed essenziale mappa di lettura dello
scritto ratzingeriano con le quattro coordinate
fondamentali indicate desidereremmo accostare del tutto marginalmente
un’appendice. A Benedetto XVI, come ha avuto occasione di attestare anche
nell’omelia di chiusura del recente Sinodo dei vescovi sulla nuova
evangelizzazione, è cara l’iniziativa del Cortile dei gentili. Ebbene, ne
vorremmo idealmente aprire uno proprio attorno ai Vangeli dell’infanzia di Gesù,
convocando un non credente doc, lo scrittore e filosofo esistenzialista francese
Jean-Paul Sartre. Era il Natale 1940 e nello Stalag XII D di Treviri ove era
internato, egli fu sollecitato dai suoi compagni cristiani di detenzione a
comporre una sorta di rappresentazione sacra. Elaborò, così, il suo primo testo
teatrale, Bariona o il figlio del tuono. Ebbene, in
quel testo, a un certo punto, entrava in scena Maria che aveva appena dato alla
luce il Bambino Gesù e, come ogni madre si era messa a contemplarlo con
tenerezza, consapevole dell’unicità della sua esperienza. Ecco alcune righe
veramente sorprendenti di quell’opera composta da un autore di netta caratura
“gentile”. «Cristo è suo figlio, carne della sua carne e frutto delle sue
viscere. Ella lo ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte
diventerà il sangue di Dio (...) Ella sente insieme che il Cristo è suo figlio,
il suo piccolo, e che egli è Dio. Ella lo guarda e pensa: “Questo Dio è mio
figlio. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi
e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi assomiglia. È Dio e
mi assomiglia!”. Nessuna donna ha avuto in questo modo il suo Dio per lei sola.
Un Dio piccolissimo che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio
tutto caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e
vive».
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