Da “Luciano Manicardi, L’umano soffrire, ed. Qiqajon
Sintesi a cura di don Luciano Pascucci
E’ difficile portare uno sguardo spirituale sulla sofferenza che sia equilibrato dal punto di vista umano ed evangelico. La storia della spiritualità cristiana ci mostra affermazioni e giudizi che rappresentano esempi di deviazioni in senso coloristico che non hanno nulla a che fare con lo spirito del vangelo, della vita e della predicazione di Gesù, e che non sono nemmeno conformi a una visione autenticamente umana della malattia e della sofferenza. E che anche dal punto di vista teologico sono discutibili o addirittura aberranti.
E’ il caso della Lettera ai Colossesi 1,24, normalmente tradotto: “Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa”.
Questa traduzione sembra implicare l’idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo.
In realtà se ci si attiene scrupolosamente al testo greco, rispettando l’ordine sintattico della frase, la traduzione del versetto deve suonare così: “Io trovo la mia gioia nelle (mie) sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa”.
Non la passione di Cristo è insufficiente per la salvezza; non è a essa che manca qualcosa; non è neppure che questo qualcosa possa esservi portato da Paolo o dai credenti, ma è alla partecipazione dell’Apostolo e dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca ancora qualcosa. Non la passione di Cristo è deficitaria, ma è “nella mia carne”, cioè alla “mia povera persona umana”, che manca qualcosa alla pienezza di partecipazione alle tribolazioni di Cristo.
Offrire a Dio la sofferenza?
Questa affermazione sposta l’accento dalla sofferenza all’amore, e questo spostamento è equilibrato ed equilibrante dal punto di vista umano e teologico.
Umano: è l’amore che può dare senso anche all’insensatezza della sofferenza.
Teologico: la rivelazione cristiana afferma che è l’amore che salva, non la sofferenza.
La sofferenza può, infatti, abbrutire, mentre l’amore può umanizzare anche chi vive gravi situazioni di dolore. Questo è verificabile anche nella vita e nella morte di Gesù.
Non è la croce e non sono le sofferenze patite nella passione e sulla croce che hanno reso grande Gesù, ma è l’esatto contrario: è la vita di Gesù, l’intera vita di Gesù traversata dall’amore, spesa nell’amare, che ha dato senso anche a quell’abominio che era, che è e che sempre resterà la croce.
Strumento di tortura e di pena di morte che uomini comminano ad altri uomini, la croce appare simbolo delle situazioni di sofferenza che disumanizzano, simbolo degli inferi dell’esistenza. Non la croce, ma colui che vi è appeso è importante e decisivo: quella morte diviene eloquente alla luce della vita precedente che la illumina con la luce dell’amore e della dedizione incondizionata agli altri.
Cristo non ha offerto le sue sofferenze, ma ha offerto se stesso, ha fatto della sua vita un’offerta a Dio, trovando la propria gioia nell’amare gli altri e questo l’ha fatto sempre, non solo sulla croce: la croce è il culmine di una vita spesa per gli altri nell’amore e nella dedizione.
Il rischio insito nell’atteggiamento ispirato alla disposizione di offrire a Dio la sofferenza è quello del dolorismo, del pensare che la sofferenza in quanto tale abbia un valore salvifico e sia gradita a Dio e, connesso a questo, c’è il rischio dell’immagine di un Dio perverso, sadico, che si compiace della sofferenza che l’uomo patisce fino ad accettarla come offerta gradita. In sostanza il problema è questo: come può un Dio che è Padre compiacersi in ciò che sfigura e devasta l’umanità del suo figlio, l’uomo? Come può il Dio Padre di Gesù Cristo gradire come offerta ciò che è male per la sua creatura?
Di fronte alla sofferenza il problema non è anzitutto quella di “offrirla”, quasi santificandola immediatamente: e se dietro a questo atteggiamento vi fosse la rimozione della fatica che essa chiede, ovvero, quella di assumerla, di darle un senso, di integrarla nella propria vita, accettando che essa susciti in noi reazioni di rivolta e ribellione? Probabilmente, l’espressione “offrire a Dio le sofferenze” esprime in modo maldestro e troppo abbreviato qualcosa di più complesso e vero: fare anche della malattia e della sofferenza, un cammino in cui si conosce qualcosa della vicinanza e della consolazione di Dio, continuare, pur con tutte le difficoltà e le intermittenze dovute alla gravità della sofferenza, a nutrire fede, speranza e carità anche nella prova.
Ma in verità, noi non offriamo a Dio le nostre sofferenze, bensì ciò che ne abbiamo fatto: al cuore di ciò che quella espressione significa in profondo, non vi sono le sofferenze, ma il lavoro interiore e di fede che abbiamo compiuto e che abbiamo lasciato compiere a Dio in noi.
E’ Dio che donandoci il suo Figlio unigenito ha offerto a noi la via che ci insegna a vivere e anche ad assumere le contraddizioni della vita cercando di amare sempre e di fare di ogni situazione un’occasione per amare.
Gesù al Getsemani non ha offerto la sua sofferenza al Signore, ma ha pregato per essere liberato dalla sofferenza e dalla morte ignominiosa, quindi ha rimesso tutto al Padre nell’atteggiamento di dono di sé, di vita spesa per gli altri e per Dio che ha contraddistinto tutta la sua esistenza. Atteggiamento di offerta, questo, che arriva a comprendere e abbracciare anche il momento della sofferenza e della morte. Tutto può essere vissuto evangelicamente, anche la sofferenza: forse è questo che tenta di esprimere l’espressione “offrire a Dio la sofferenza”.
Più che offrire a Dio la sofferenza, si tratta di rielaborare dall’interno, nella fede, con l’amore, la sofferenza stessa, nella convinzione che il senso della vita sta nell’amore con cui Dio ci ha amati in Cristo e nell’amore che noi sappiamo vivere e trasmettere.
La sofferenza è un male, ma l’anima umana può liberamente trasformare questo male non tanto in un bene, quanto piuttosto in un principio suscettibile di irradiare amore, speranza e carità. Questo implica che l’anima che si trova nel dolore si apra maggiormente agli altri invece di rinchiudersi in se stessa o sulla sua ferita.
Per fare questo lavoro occorre però una base salda che l’uomo non può darsi da se stesso: il cristiano riconosce questa base nell’esperienza di amore di Cristo per lui, un amore più forte della sofferenza e della morte. Questa esperienza può essere fatta soprattutto nella celebrazione eucaristica.
La realtà umana e spirituale evocata dalla inadeguata espressione “offrire a Dio la sofferenza”, implica l’esperienza di fede di un amore preveniente e di un essere amati anche nella propria malattia e situazione infelice. Insomma, è la passione dell’amore che dà senso alla passione del soffrire.
Amare implica sempre una sofferenza. A volte avviene che persone molto malate o gravemente sofferenti sappiano irradiare una luminosità, una gioia di vivere e una capacità di amore che il semplice contatto con loro, il restare accanto a loro anche per poco tempo si rivela essere un’esperienza spirituale e umana di profondo arricchimento: quelle persone hanno saputo innestare la sofferenza nell’amore e far prevalere la passione dell’amore sulla passione del soffrire. E ci trasmettono l’insegnamento grande: l’amore dà senso, e la vita, in tutti i suoi aspetti, ha senso quando diviene un capolavoro di donazione e di amore. Perché allora è una vita beata. E la beatitudine può essere sperimentata, sulle tracce di Cristo, anche nella sofferenza, nelle persecuzioni, nelle afflizioni. Quando si entra nella comprensione della liberante parola: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35), allora il senso della vita tutta, ogni suo momento, è trovato nella capacità di farne un’offerta, un dono. Di fare di sé un’offerta. Fino a trasfigurare ciò che bene non è, come la sofferenza e la malattia.
La volontà di Dio
E’ sempre difficile osare una parola sulla sofferenza, sulla malattia, sulla morte.
E’ difficile avere una parola all’altezza di eventi così gravi come la sofferenza e, soprattutto, la morte. E’ difficile pronunciare una parola umana, ma anche una parola teologicamente adeguata. Impreparazione e improvvisazione possono portare il visitatore e l’accompagnatore di un malato a pronunciare parole non solo insensate teologicamente e non fondate biblicamente, ma anche offensive o imbarazzanti per la sensibilità del malato. Dire al malato “il privilegio” della sua sofferenza perché questa è segno della predilezione divina, oppure perché questa avvicina maggiormente e unisce misticamente a Cristo crocifisso, o dare l’impressione che la sofferenza in quanto tale sia un valore salvifico in sé, tutto questo significa “sostituirsi” con violenza al malato nel lavoro di interpretazione dell’evento della sua malattia e veicola l’immagine di un Dio perverso, che certamente non è il dio narrato da Gesù Cristo nella sua vita, nelle sue parole, nei suoi atti, e infine nella sua morte.
Occorrerebbe poi prestare molta attenzione al ricorso alla categoria della “volontà di Dio”. Troppo facilmente e velocemente si attribuisce alla volontà di Dio un male, una malattia, una sofferenza, una morte invitando così a un atteggiamento di rassegnazione fatalistica. E così si confonde il Dio cristiano con il fato pagano. “Bisogna accettare la volontà di Dio”: questa frase detta al capezzale di un malato, che cosa rivela? L’imbarazzo di chi non sa che cosa dire e pur tuttavia si sente in dovere di dire qualcosa, quasi temendo che il silenzio possa essere una sua personale sconfitta? Spesso il silenzio partecipe è denso di forza comunicativa molto più di qualsiasi parola! Oppure rivela una necessità (“Bisogna”) a cui nessuno può sottrarsi e così chiude un discorso troppo rischioso se intrapreso e approfondito? Ma il linguaggio del “si deve”, “bisogna”, “occorre”, “è necessario”, elimina l’unica cosa veramente essenziale: la libertà dell’uomo chiamato a scegliere e a situarsi responsabilmente davanti a Dio nelle diverse contingenze e, in particolare, in emergenze così ardue come una malattia. E poi, soprattutto, il riferimento alla “volontà di Dio” che può solo essere accettata, sembra indicare qualcosa di già fissato, di prestabilito, che cade dall’alto, e che non lascia alcuno spazio alla risposta umana, al suo necessario e faticoso articolarsi soprattutto di fronte a eventi dolorosi e tragici come malattie e sofferenze.
Va qui denunciata una concezione purtroppo diffusa della “volontà di Dio” che non risponde in nulla alla rivelazione evangelica.
Anche di fronte ad una malattia da assumere, il “fare la volontà di Dio” avviene all’interno di un plesso di elementi quali la condizione psicofisica del malato, la sua fede, l’ambiente che gli sta accanto e il tipo di accompagnamento e di assistenza di cui gode… In ogni caso, non risponde certo né alla lettera né allo spirito del vangelo l’affermare che Dio vuole la sofferenza dell’uomo. Dio vuole la libertà dell’uomo e la sua umanizzazione; Dio vuole la felicità dell’uomo, una felicità trovata nell’amare e nel donarsi, nello spendere la propria vita per gli altri, dunque una felicità che sa assumere anche le sofferenze e le tribolazioni. Una distorsione del messaggio evangelico diffonde l’idea che la volontà di Dio consista unicamente nella “croce”, nel “rinnegamento di sé”, nell’ “umiliarsi”, dimenticando che non queste dimensioni di per sé sono ciò che immette nella comunione con Dio, ma solo l’amore, la libertà con cui una persona sceglie di amare e donare la vita accettando anche le sofferenze (e dunque le umiliazioni, i rinnegamenti di sé, la croce) che questo comporta. Non la sofferenza, ma l’amore salva! Non la croce di per sé, che è strumento di morte, salva, ma la vita di colui che vi è steso sopra, la quale dà anche senso alla croce.
Se ci volgiamo al N.T. noi vediamo che ciò che Dio vuole è “la salvezza di tutti gli uomini” (1Tm 2,4), è che “chiunque crede nel Figlio abbia la vita eterna” (Gv 6,40), è che “nessuno di questi piccoli si perda” (Mt 18,14). La volontà di Dio è espressa nella vita di Gesù Cristo, l’uomo secondo il cuore di Dio, che cioè adempie l’intenzione di Dio. Così la volontà di Dio non schiaccia, ma eleva l’uomo, non lo paralizza, ma lo dinamizza, non lo disimpegna, ma lo responsabilizza, non lo rende supino, ma suscita la sua libertà, non deprime la sua umanità, ma la esalta. Il Dio rivelato da Gesù Cristo non vuole sacrifici cruenti, ma il libero dono di sé per amore. Così il Cristo, entrando nel mondo, può dire: “Non hai voluto né sacrifici né offerta… allora ho detto: “Ecco, io vengo, per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,5-7).
La volontà, cioè l’intenzione profonda che guida Dio nel suo rapporto con gli uomini, è la salvezza, l’amore, la preoccupazione amorosa. Certo, questo incontrare l’uomo là dove l’uomo è, dunque anche negli inferi dell’esistenza, nel male, nella sofferenza, nella morte, porta Dio stesso, nel suo Figlio, ad abitare queste realtà che ora possono essere vissute dal credente con una speranza nuova. Dio non è un dio sadico che vuole la sofferenza né del suo Figlio, Gesù Cristo, né dei suoi figli, gli uomini. Anzi, vuole mostrare che la sofferenza e la morte non hanno l’ultima parola sull’uomo, ma possono essere risignificate in Cristo, vivificate dall’amore. Il Cristo che al Getsemani prega: “Abba, Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però, non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). Ciò non indica che il Padre voglia la morte cruenta del Figlio, ma che il Figlio, nell’amore per il Padre e nella dedizione alla sua missione, si dispone a viverne anche un esito non voluto e non desiderato facendo la volontà di Dio, cioè amando e donando fino alla fine.
“Di fronte alla morte, non possiamo dire fatalisticamente: “E’ volontà di Dio”. Dobbiamo aggiungere subito il contrario: “Non è volontà di Dio”. La morte dimostra che il mondo non è quel che dovrebbe essere, ma che ha bisogno di redenzione. Solo Cristo vince la morte. Nella sua morte, le due espressioni “è volontà di Dio” e “non è volontà di Dio” raggiungono il massimo del paradosso e dell’equilibrio. Dio accetta di lasciarsi coinvolgere in qualcosa che non è la sua volontà e da quel momento in poi la morte deve servire Dio nonostante tutto…Solo nella croce e nella resurrezione di Cristo la morte è stata ridotta sotto il potere di Dio e costretta a servire il piano di Dio. Non una resa fatalistica, ma una fede viva in Gesù Cristo, che è morto e ancora è risorto per noi, può veramente sbarazzarci della morte” (Andersen).
Grazie per questo bellissimo commento, edificante davvero
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