In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro [...]
Dal DESERTO delle TENTAZIONI la liturgia ci conduce oggi sul MONTE della TRASFIGURAZIONE e se il deserto era il luogo simbolico in cui ogni uomo deve passare per scoprire i propri limiti e il proprio bisogno di Dio, così il MONTE è il luogo simbolico dell’incontro con Dio, della scoperta di come dietro i limiti della nostra umanità c’è una dimensione divina che ci è stata donata e che ci rassicura sul nostro destino eterno.
Siamo cenere e alito divino, esseri terreni e insieme spirituali, divini. Il cammino quaresimale si gioca su questi due estremi rappresentati dai luoghi simbolici del deserto e della montagna: dobbiamo cioè riscoprire, da una parte, la nostra fragilità creaturale, il nostro bisogno di Dio, le scelte che concretamente facciamo, dall’altra il nostro essere figli di Dio, destinati ad un avvenire luminoso, chiamati ad un rapporto filiale fatto di preghiera alimentata dalla Parola di Dio.
Abbiamo così gli elementi o gli strumenti tipici della quaresima:
- il deserto ci invita al digiuno o alle privazioni, spesso chiamate “fioretti”, oggi ben poco di moda, ma dalla Chiesa continuamente rilanciate come occasioni per riprendere in mano i nostri appetiti, dimostrarci capaci di gestire i nostri bisogni senza diventarne succubi e insieme strumenti di carità per sensibilizzarci nei confronti dei fratelli più bisognosi e dar loro una risposta concreta. Domenica scorsa, in definitiva, la liturgia mostrava l’importanza della nostra rinuncia al peccato e della nostra professione di fede.
- la montagna ci richiama il bisogno della preghiera alimentata dalla Parola di Dio. In questo percorso quaresimale Dio ci concede delle soste momentanee (“li condusse in disparte, su un alto monte, loro soli”) in cui intravedere la meta: momenti in cui tutto sembra luminoso, bello, chiaro. Ma sono momenti che richiedono la fatica di riprendere un cammino quotidiano più oscuro e doloroso: alla tentazione di fare delle CAPANNE per rendere permanenti questi momenti, Dio risponde con l’invito di ASCOLTARE suo Figlio e di SEGUIRLO senza timore. “Alzatevi e non temete” dice Gesù, scendete dal monte e riprendete con me il percorso verso Gerusalemme, dove sarò arrestato e ucciso come un malfattore, ma anche dove quella luce intravista diventerà finalmente eterna.
Proviamo a seguire gli elementi presenti nel brano con cui Marco descrive questo episodio[1]:
IL MONTE della TRASFIGURAZIONE: “Come già nel Discorso della montagna e nelle notti trascorse in preghiera da Gesù, incontriamo di nuovo il MONTE come luogo della particolare vicinanza di Dio… il monte come luogo della salita – non solo della salita esteriore, ma anche dell’ascesa interiore; il monte come un liberarsi dal peso della vita quotidiana, come un respirare nell’aria pura della creazione; il monte che offre il panorama dell’ampiezza della creazione e della sua bellezza; il monte che mi dà elevatezza interiore e mi permette di intuire il Creatore” (Benedetto XVI).
Come le tentazioni del deserto ci offrono l’immagine autentica dell’uomo Gesù, nuovo Adamo, che riconduce in armonia gli elementi opposti delle fiere e degli angeli che, convivendo, lo servivano, così la trasfigurazione ci mostra il volto divino di Gesù, nascosto nella natura umana, ma svelato dalle sue parole di vita e dalle azioni prodigiose che le accompagnano ed ora momentaneamente rivelato dal contatto profondo con Dio che illumina anche esteriormente il Figlio e ne rivela la piena identità (divina oltre che umana).
MOSE’ ed ELIA: “Mosè ed Elia avevano potuto ricevere la rivelazione di Dio sul monte; ora sono a colloquio con Colui che è la rivelazione di Dio in persona”... “La Legge e i Profeti parlano con Gesù, parlano di Gesù” (della sua “dipartita”, aggiunge Luca, cioè della sua croce come “esodo, un uscire da questa vita, un attraversare il Mar Rosso della passione e un passare nella gloria, nella quale tuttavia restano sempre impresse le stimmate”: cf. Lc 9,31).
Gesù conversa con MOSE’ ed ELIA, i personaggi chiave che nell’Antico Testamento rappresentano l’intera Scrittura, la Legge e i Profeti, e che trovano in Gesù il compimento del loro cammino e delle loro profezie. Sono personaggi del PASSATO (vissuti secoli prima di Gesù), accomunati anche dal fatto di aver vissuto un rapporto singolare con la morte: di Mosè nessuno sa dove sia stato seppellito (mancano dunque i segni concreti della sua morte), mentre di Elia si racconta che è stato assunto in cielo su un carro di fuoco.
Anche questo fatto, come il richiamo esplicito alla “risurrezione dai morti”, ci indica come siamo di fronte ad un anticipo della Pasqua, nostra meta, come il Cristo sia il CONTEMPORANEO di ogni uomo, colui che è VIVO e che Dio ci invita ad ascoltare e seguire su una via insieme dolorosa e gloriosa, fatta di sofferenza e di consolazione. Potrà accadere di avere qualche anticipo di risurrezione, ma dobbiamo sempre proseguire il cammino, perché la pienezza sta davanti e non alle spalle.
A PIETRO l’accaduto piace, ma non capisce, ha paura e non è ben consapevole di cosa stia dicendo[2]. Ha riconosciuto (sei giorni prima) Gesù come il Cristo, il Figlio di Dio, ma non comprende ancora, e con lui gli altri discepoli, cosa significhi che debba risorgere dai morti (e insieme che debba soffrire e morire come un malfattore). E’ il cammino della fede, fatto di piccole certezze e di tanta confusione e di tanti dubbi.
Dio mette alla prova Abramo, ovvero Abramo è chiamato a mettere Dio al primo posto, non a sacrificare il figlio, a rinunciare alla sua “proprietà”, per riscoprire la dimensione di dono: scoprirà che Dio non è un essere crudele e incomprensibile, piuttosto è la nostra fede che può vivere momenti di terribile tenebra, ma anche di approdi luminosi. Non ancorati al passato (và dal tuo paese), ma neanche al futuro (sacrifica il figlio promesso), per vivere un presente in cui Dio provvede a ciò di cui abbiamo bisogno (se abbiamo fede e ci liberiamo della nostra “previdenza”).
Era prassi di alcuni popoli circostanti di immolare il figlio primogenito, quando si costruiva una città o un palazzo, per ottenere la protezione divina. Abramo è l’espressione della fede obbediente, assoluta. Per Dio è disposto a tutto, anche a rinunciare alla promessa che Dio stesso gli ha fatto, a rinunciare in definitiva al proprio futuro. Abramo deve tuttavia riconoscere che il suo Dio è diverso: è lui che provvederà da sé l’agnello per l’olocausto. E’ nel monte Moria (identificato col monte di Gerusalemme) che Dio offrirà all’umanità ciò che ha di più prezioso: suo figlio[3]. Non si tratta di un macabro rituale, ma del prezzo che l’amore più profondo richiede: dare la stessa vita perché il seme porti frutto, perché il Figlio rimanga in mezzo a noi e perché Dio, attraverso di Lui sia presente nella nostra storia.
“Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?”. Di fronte alla prova, alle difficoltà la vicenda del Cristo (“Lui che non ha risparmiato il proprio Figlio,” – ciò che aveva di più prezioso- “ma lo ha consegnato per tutti noi”) è lì ad assicurarci che Dio è per noi, è nostro alleato, è dalla nostra parte. E se lui è con noi quale nemico può realmente metterci paura? Se ci ha dato il Figlio “non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?”. Gesù non è venuto per condannarci, ma per aiutarci: Lui, il vivente, intercede per noi, cosa possiamo realmente temere?
La condizione richiesta non è cieca obbedienza, ma ASCOLTO: OBBEDIRE è ob-audire: ascoltare, rispondere, mettersi in relazione. In nome di Dio sono stati commessi crimini, ma Dio è amore, puro bene e non può entrare in contraddizione con sé stesso: il primato è al bene, alla coscienza, al rapporto intimo con Dio e col suo Figlio, l’amato. Si tratta ora di riprendere il nostro cammino quotidiano, di scendere dal monte e affidarci a Gesù solo, ai poveri e incerti segni della sua presenza, e seguirlo sul cammino che, per portarlo alla Vita piena ed eterna, deve passare per la Croce.
MATERIALE per la CATECHESI: II domenica di QUARESIMA catechesi.doc
[1] Il brano inizia con una indicazione temporale importante: “6 giorni dopo” la confessione di Pietro, Gesù si trasfigurò sul monte davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. Si tratta dunque di due episodi correlati: “entrambe le volte si tratta della divinità di Gesù, il Figlio; ma entrambe le volte l’apparizione della sua gloria è legata al tema della passione. La divinità di Gesù va insieme alla croce; solo in questo legame riconosciamo Gesù in modo giusto”.
[2] è uno spavento da valutarsi non in termini puramente psicologici, ma teologici, in quanto è prima di tutto timore, rispetto per la potente azione di Dio nella persona di Gesù;[2][28] e il medesimo sentimento apparirà non a caso riferito alle donne dopo aver accolto l’annuncio pasquale davanti alla tomba vuota.[2][29] In sostanza, le parole di Pietro sono impacciate e inadeguate perché ha intravisto qualcosa di un mistero più grande, che annuncia, in un certo senso, lo stesso trionfo della risurrezione sulla morte. Le CAPANNE farebbero riferimento anche alla festa ebraica che celebrava il dono della legge di Dio e i 40 anni passati nel deserto, per ricordare i quali, gli ebrei erano invitati a trascorrere 6 giorni in tende improvvisate (a ricordo del cammino nel deserto).
[3] “Isacco ora è veramente il figlio donato in pienezza da Dio: Abramo, infatti, ha idealmente rinunciato al figlio della sua carne attraverso l’obbedienza della fede, e colui che ora è con lui è per eccellenza il figlio della promessa” (G.Ravasi). Qualche mese fa il Papa ricordava come i figli non appartengono ai genitori
ERMES RONCHI: Gesù porta i tre discepoli sopra un monte alto. La montagna è la terra dove si posa il primo raggio di sole e indugia l'ultimo, la terra che si innalza nella luce, la più vicina al cielo, quella che Dio sceglie per parlare e rivelarsi. Infatti lassù appaiono Mosè ed Elia, gli unici che hanno veduto Dio. E si trasfigurò davanti a loro. Il Vangelo non evidenzia nessun particolare della trasfigurazione, se non quello delle vesti diventate splendenti. Ma se così luminosa è la materia degli abiti che coprono il corpo, quale non sarà lo splendore del corpo? E se così è il corpo, cosa sarà del cuore? È come quando il cuore è in festa e la festa si comunica al volto, e di festa sono anche i vestiti. Pietro ne è sedotto, prende la parola: che bello essere qui! Facciamo tre capanne. L'entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita: che bello! ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un «che bello!» gridato a pieno cuore.
Ciò che seduce Pietro non è l'onnipotenza di Dio, non lo splendore del miracolo, il fascino dell'infinito, ma la bellezza del volto di Gesù. Quel volto è il luogo dove è detto il cuore, il suo cuore di luce; dove l'uomo si sente finalmente a casa: qui è bello stare! Altrove siamo sempre lontani, in viaggio. Il nostro cuore è a casa solo accanto al tuo. Il Vangelo della Trasfigurazione mette energia, dona ali alla nostra speranza: il male e il buio non vinceranno, non è questo il destino dell'uomo. Alimenta un pregiudizio sulla bontà dell'uomo, un pregiudizio positivo: Adamo ha, o meglio, è una luce custodita in un guscio di creta. La sua vocazione è liberare la luce. Avere fede è scoprire, insieme con Pietro, la bellezza del vivere, ridare gusto a ogni cosa che faccio, al mio svegliarmi al mattino, ai miei abbracci, al mio lavoro. Tutta la vita prende senso e si illumina. Ma questo Vangelo ci porta una notizia ancora più bella: la trasfigurazione non è un evento che riguarda Gesù solo, al quale noi assistiamo da spettatori. È un evento che ci riguarda tutti, al quale possiamo e dobbiamo partecipare. Il volto di Gesù sul monte è il volto ultimo dell'uomo, è il presente del futuro.
È come sbirciare per un attimo dentro il Regno, vederlo come una forza possente che preme sulla nostra vita, per trasformarci, per aprire finestre di cielo. Il Vangelo di domenica scorsa chiedeva: convertiti. La conversione è come il movimento del girasole, questo girarsi verso la luce. Il Vangelo di questa domenica offre il risultato: mi giro e trovo il sole, sono irradiato, mi illumino, mi imbevo e godo della luce, il simbolo primo di Dio.
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