giovedì 3 gennaio 2013

CINQUE DONNE ALLA CULLA DI GESÙ. RUT e BETSABEA


RUT e BETSABEA :
pietà e fedeltà – bellezza e intrighi – pentimento e coraggio



Rut: pietà e fedeltà – moabita – razza disprezzata dagli ebrei diventa la nonna di Davide.
Rut è l’immagine dell’umanità straniera incorporata nel popolo di Dio.

Betsabea: bellezza e intrighi, pentimento e coraggio – hittita – razza nemica – amante e poi sposa di Davide – madre di Salomone il re più sapiente e saggio di Israele.

Struttura del libro di Rut: un itinerario spirituale

Il breve libro di Rut racconta la storia di una donna moabita, che abbandona il suo popolo per seguire la suocera ebrea a Betlemme. Da Rut nascerà Obed, che sarà padre di Iesse, il padre del re Davide.
 
Al di là degli aspetti letterari di un testo di grande bellezza, possiamo trarre interessanti elementi di tipo storico e spunti di riflessione, dal momento che si parla in esso in termini fortemente positivi di una donna straniera.
Nella vita domestica di due donne appaiono i sentimenti più reali dell’esperienza di ogni persona che deve fare i conti con la tristezza e la gioia, l’angoscia e la speranza, l’abbandono e la protezione, la penuria e l’abbondanza. Noemi e Rut emergono tra tutti i personaggi e nelle diverse situazioni per la forza della loro amicizia-amore che le porta a vincere ogni ostacolo.
La narrazione situa gli avvenimenti in un periodo di carestia generalizzata e la morte insperata di tutti gli uomini di una famiglia, l’espatrio, l’ “abbandono” da parte di Dio, la solitudine di due vedove in una cultura maschilista.
In questa “situazione drammatica” l’autore mette in risalto il coraggio, la creatività, la forza, la fedeltà di queste due donne che sanno amarsi e solidarizzarsi e scoprire insieme la “presenza” di Dio nelle diverse calamità.
In tutto il racconto, di fede semplice e profonda, Dio interviene solo due volte. In Rt 1,6 Noemi sente dire che Dio ha avuto compassione del suo popolo “procurandogli pane” e in Rt 4,13 Dio benedice Rut dandogli un figlio.
Siamo quindi invitati a scoprire la presenza silenziosa di Dio che dà il pane, si prende cura delle due vedove inviando loro Booz e genera nuova vita. Dio appare come Colui che sta silenziosamente accompagnando le persone marginalizzate, abbandonate, straniere, donne e vedove ….
Ma il libro può anche essere letto come la storia di salvezza che “dall’esilio fa ritornare in patria”.
Ma soprattutto esalta la lotta di queste due donne per i loro diritti alla vita. È per amore alla vita che le due donne si incontrano nello stesso popolo, nella stessa fede. Sembra evidente che il bellissimo racconto di Noemi-Rut si ricolleghi alla tradizione Yavista, del tempo di Davide. In questa tradizione Dio ha un nome misterioso “Yhwh” che viene interpretato “Io sono colui che sono” … il tuo salvatore, la tua vita, il tuo tutto.
Il libro può essere diviso in "quattro blocchi narrativi principali, contenenti ognuno diverse scene singole, collegate da interludi e incorniciate da una introduzione e da una parte conclusiva" (per l'analisi letteraria del testo, seguo lo schema proposto da Rolf Rentdorff, Introduzione all'Antico Testamento, Torino, Claudiana, 1990 – pp. 341-343 e la Biblia de nuestro pueblo di Luis Alonso Schökel):
Introduzione (Rt 1, 1-5)

Un uomo di Betlemme, Elimelec, per sfuggire alla carestia che imperversava nella terra d'Israele, andò a stabilirsi con la moglie Noemi e i due figli, Maclon e Chilion, nella campagna di Moab. Elimelec morì e i due figli si sposarono con due donne del luogo, Orpa e Rut. Morirono anche i figli e Noemi "rimase priva dei suoi due figli e del marito": rimangono tre vedove per affrontare il futuro.

  • Primo blocco (Rt 1, 6-18) – una giovane “straniera”

Noemi, poiché aveva sentito dire “che il Signore aveva visitato il suo popolo, dandogli pane”, decide di ritornare a Betlemme. Parte con le due nuore, ma poi, rivolgendosi loro, le invita a tornare indietro, a casa delle loro madri, per cercarsi un nuovo marito (= un sicuro sostegno e una discendenza).
Le due donne dapprima rifiutano, poi quando Noemi insiste dicendo che con lei non avranno un futuro, poiché non ha altri figli da dare loro come sposi né ha speranza di averne, Orpa bacia la suocera a torna indietro. Rut, invece, non vuole sentir ragione, e afferma, anzi: "Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò: il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch'io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te." (Rt 1, 16-17) . Quando Noemi la vide così decisa ad accompagnarla, cessò di insistere.

  • Interludio (Rt 1, 19-22) – Rut sceglie il popolo e il Dio di Israele

Noemi e Rut giungono a Betlemme, nel periodo della mietitura dell'orzo.
Tutta la città si interessò di loro. Ma Noemi (= mia delizia) vuol farsi chiamare Mara (= amareggiata) perché è tornata povera di tutto … eccetto che dell’amore della nuora moabita.

  • Secondo blocco (Rt 2, 1-17) – Rut incontra Booz mentre spigola nel suo campo

Noemi aveva in Booz un ricco parente da parte del marito. Rut, per mantenere se stessa e la suocera, decide di andare a spigolare e per caso giunge in un campo che appartiene proprio a Booz, dove inizia a raccogliere le spighe abbandonate dai mietitori.
Booz, vista la donna e dopo aver saputo che è la nuora di Noemi, la fa chiamare e la invita a continuare a spigolare nei suoi campi, promettendole protezione e invitandola a mangiare con i mietitori.

  • Interludio (Rt 2, 18-22. 23)

La sera Rut racconta alla suocera Noemi che cosa le è accaduto e le fa vedere il molto orzo raccolto. Noemi dice alla nuora che Booz è un suo parente.

  • Terzo blocco (Rt 3, 1-15) – Noemi propone a Rut di sposare Booz e architettano un piano che porti alle nozze

Noemi, durante un colloquio con Rut, le propone un piano: la invita a profumarsi, ad avvolgersi in un manto e ad andare nell'aia dove Booz sta vagliando l'orzo. Quando l'uomo stanco, dopo aver mangiato e bevuto, si sarà addormentato, Rut dovrà sdraiarsi ai suoi piedi e coprirsi con la coperta di lui. Rut fa ciò che la suocera le ha consigliato; quando Booz nel mezzo della notte si sveglia trova la donna ai suoi piedi che gli dice: "Sono Rut, tua serva; stendi il lembo del tuo mantello sulla tua serva, perché tu hai il diritto di riscatto".  Booz loda Rut e le promette che farà quanto lei vuole, anche se c'è un altro parente più stretto che ha il diritto di riscattarla prima di lui.

  • Interludio (Rt 3, 16-18)

Rut torna da Noemi e le racconta quanto è successo. Noemi la rincuora dicendo che « certo quest'uomo non si darà pace finché non abbia concluso oggi stesso questa faccenda»

  • Quarto blocco (Rt 4, 1-12) – Booz acquista il diritto di riscatto e di matrimonio con Rut

Booz alla porta della città incontra l'uomo che ha il diritto di riscattare Rut prima di lui e, alla presenza di dieci testimoni, gli dice che Noemi ha intenzione di vendere un campo che apparteneva ad Elimelec e che, acquistando il campo, avrà in moglie anche Rut. L'uomo risponde di non poterlo fare e invita Booz a subentrare nel suo diritto. Booz, allora, alla presenza dei testimoni, acquista quanto era appartenuto a Elimelec e prende in moglie Rut, "per assicurare il nome del defunto sulla sua eredità e perché il nome del defunto non scompaia tra i suoi fratelli e alla porta della sua città".

  • Conclusione (Rt 4, 13-17) – Nozze di Booz e Rut

Booz sposa Rut e Rut partorisce un figlio. Noemi "prese il bambino e se le pose in grembo e gli fu nutrice. E le vicine dissero: ‘E' nato un figlio a Noemi!'."

  • Genealogia di Davide (Rt 4, 18-20)

Viene proposta la genealogia discendente di Davide da Perez a Booz, a Obed e a Iesse, padre del re Davide. Dalla lettura del testo emergono elementi diversi di tipo storico per cui sarebbe riduttivo pensare che il libro sia una semplice novella composta a scopo edificatorio.



Spunti di riflessione
  • Il significato simbolico nei nomi
Nel libro di Rut i nomi del personaggi hanno un significato simbolico:
Booz: forza in lui
Elimelec (lo sposo di Noemi): il mio Dio è re
Maclon: languore, malato debole e Chilion: consunzione, sfinito ► sono i due figli di Elimelec e Noemi e che lasciano vedove Orpa e Rut.
Mara (nome che assume Noemi): l’amareggiata
Noemi (la sposa): la mia graziosa, la mia dolcezza
Obed (figlio di Booz e Rut): servitore [del Signore] ► da lui discenderà Davide
Rut (la sposa-vedova che rimane e diventa nuova sposa): l’amica
Orpa (la sposa-vedova che se ne va): colei che volge il dorso

L'interpretazione simbolica dei nomi non deve portare a concludere, però, che il racconto del libro di Rut sia una semplice invenzione letteraria: gli elementi storici, in effetti, molto forti, spingono in direzione di un'interpretazione diversa. Pur sottolineando gli elementi letterari presenti nel testo, la critica non considera il libro una semplice novella.

  • La sofferenza del giusto
Un'interpretazione possibile del libro di Rut è quella che mette in luce il tema della sofferenza del giusto, tema presente molte volte nella Bibbia: Dio spesso sembra "mettere alla prova" il giusto con una serie di sventure per saggiarne la fedeltà (si pensi al libro di Giobbe).
Se si accetta questa interpretazione, la protagonista del libro non sarebbe tanto Rut, quanto Noemi, che vede morire il marito e i figli e si viene a trovare in una condizione di assoluta impotenza; alle donne di Betlemme che la riconoscono chiamandola per nome, dopo il suo ritorno dalla terra di Moab, Noemi dice: "Non mi chiamate Noemi (=mia dolcezza), chiamatemi Mara (= l’amareggiata), perché l'Onnipotente mi ha tanto amareggiata! Io ero partita piena e il Signore mi fa ritornare vuota. Perché chiamarmi Noemi, quando il Signore si è dichiarato contro di me e l'Onnipotente mi ha resa infelice?" (Rt 1, 20-21).
Ma, secondo la Bibbia, se Dio mette alla prova il giusto con la sofferenza, non manca poi di premiarlo. E' ciò che avviene a Noemi quando Rut genera il figlio Obed: "E le donne dicevano a Noemi: "Benedetto il Signore, il quale oggi non ti ha fatto mancare un riscattatore, perché il nome del defunto (Elimelec) si perpetrasse in Israele! E sarà il tuo consolatore e il sostegno della tua vecchiaia; perché lo ha partorito tua nuora che ti ama e che vale per te più di sette figli." (Rt 4, 14-15).
  • Il tema della fedeltà
Un'altra interpretazione possibile del libro di Rut è quella che mette in luce la presenza in esso del tema della fedeltà. Fedeltà a più livelli: la fedeltà di Dio che non abbandona Noemi ad un destino di infelicità (com'era la condizione delle vedove al tempo); la fedeltà di Noemi nei confronti di Dio (nonostante le sventure che l'hanno colpita, Noemi non si ribella nei confronti della sorte e di Dio); la fedeltà di Rut nei confronti della suocera, che diventa amore nei confronti di lei e del mondo da cui lei proviene; la fedeltà di Booz che, nonostante le difficoltà, non viene meno a quello che lui considera il suo compito, riscattare Rut, prenderla in moglie.
  • Rut, la moabita
Ma è sulla figura e sull'agire di Rut che si appunta in particolare la nostra attenzione: Rut è una straniera, appartiene ad un popolo "impuro", idolatra e ostile ad Israele; è una donna e, quindi, si trova in una condizione di inferiorità in un mondo maschile, com'era quello dell'Antico Testamento. Eppure è su di lei che si concentra l'attenzione del libro, è da Rut che avrà origine la casa di Davide, da cui nascerà Gesù. Vengono a mente il salmo 34:7 “Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce” e il salmo 113:7 “Solleva l'indigente dalla polvere, dall'immondizia rialza il povero, 8 per farlo sedere tra i principi, tra i principi del suo popolo”.

Di lei si parla in termini del tutto elogiativi: è colei che sceglie di abbandonare la famiglia paterna, la sua terra, per seguire la suocera che lei ama come una madre, ma che non le può promettere nulla, vedova e avanti negli anni com'è. Da un legame d'amore fra una donna ebrea e una donna moabita avrà origine un grande destino: la storia si serve di due figure marginali – una vedova e una straniera – per i suoi progetti.
Rut è colei che in nome dell'amore sa scommettere fino in fondo: "Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te – dice a Noemi -; perché dove andrai tu andrò anch'io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu morirò anch'io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te." (Rt 1, 16-17).
E l'amore di Rut sarà oggetto di ricompensa, Booz la vorrà con sé, riconoscendone e apprezzan-done la generosità del cuore e dicendole: "Mi è stato riferito quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per venire presso un popolo, che prima non conoscevi. Il Signore ti ripaghi quanto hai fatto e il tuo salario sia pieno da parte del Signore, Dio d'Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti." (Rt 2, 11-12).
  • L'interpretazione allegorica del libro di Rut
Nella storia il libro di Rut è stato oggetto di molte interpretazioni: una, in particolare, può interessare la nostra riflessione, quella cristiana in chiave allegorico-tipologica (secondo la quale si riferisce un episodio o un personaggio dell'Antico Testamento alla realtà del Nuovo Testamento): Rut è "tipo" della ecclesia ex gentibus, della Chiesa che nasce dal mondo pagano abbando-nando gli idoli per abbracciare la fede nel vero Dio. Questa interpretazione è proposta dai Padri antichi come Origene, sant'Ambrogio, san Giovanni Crisostomo, san Girolamo.

Ma forse anche un'altra interpretazione è possibile: Rut per amore sceglie di seguire la suocera, di convertirsi alla fede di lei, di diventare parte del popolo di lei. E allora la sua origine, il suo essere straniera, passa in secondo piano: l'ottica del libro di Rut è un'ottica universalistica. La salvezza è per i tutti i popoli. Questa prospettiva sembra anticipare i famosi versetti 26-29 dell'Epistola ai Galati di Paolo: "Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa."(Gal 3,26-29)

Per la Chiesa di oggi

La Chiesa, usando il libro di Rut nella sua liturgia,  non vuole dimenticare che Dio, pur avendo scelto Israele come prediletto, ha sempre un piano e una visione universale. Tutti partecipano al suo piano, ovvero, il piano di Dio è per la salvezza di tutti.
Rut è un libretto che Dio invia a Israele quando questi, sotto la spinta riformista di Esdra e Neemia, rischia di diventare troppo razzista e fondamentalista. L’autore sacro ricorda a l’Israele che non deve vantarsi tanto della sua razza “pura” perché nelle vene del loro re più sacro, Davide, scorre anche sangue moabita.
Pur scegliendosi un popolo amato in modo particolare, Dio scrive una storia “universale”.

Rut: pietà e fedeltà

Il libro di Rut ha dei collegamenti con la storia di Tamar: in 4,12 si parla di Peres, figlio di Tamar e Giuda e, in 4,18-22. Peres è tra gli antenati di Davide. Un altro aspetto da evidenziare è che i dieci nomi della genealogia con i quali si chiude il libro si trovano anche in Mt 1,3-6.
Rut era la nuora di Noemi, una donna la cui esistenza fu tutta una discesa, almeno inizialmente. A causa di una grave carestia aveva lasciato Betlemme e con il marito e i due figli emigra in terra straniera. È strano, ma Noemi e la sua famiglia devono lasciare la «casa del pane» (tale è il significato del nome Betlemme), la terra promessa da Dio per poter vivere.
Nel nuovo paese poi muore Elimelec, il marito, e dopo dieci anni i due figli Maclon e Chilion, che nel frattempo si erano sposati con Orpa e Rut. Al colmo delle sventura, entrambi muoiono senza lasciare discendenza.
Noemi si trova nello stato più miserevole: vedova, con due nuore, vedove a loro volta, senza prole e in terra pagana. Che fare? Noemi decide di ritornare a Betlemme, nella terra santa. E qui subentra una svolta importante. Al momento della separazione dalle due donne, Rut, con grande coraggio, ma anche sincero affetto, decide di non abbandonare la suocera, ma si seguirla: non teme di en­trare a far parte di un popolo notoriamente ostile al suo.
Giunta a Betlemme nel tempo della mietitura, senza perdersi d'animo Rut va a spigolare nel campo di Booz, un lontano parente di Noemi.
Abbiamo poi il famoso episodio notturno sull'aia, dove Rut va ad accovacciarsi ai piedi di Booz. Rut si offre a Booz permettendogli di unirsi a lei: questo farà sì che egli la riscatti. L'episodio si conclude con le nozze, e la nascita dopo poco di Obed, il nonno di Davide.  (cf. Cinque donne alla culla di Gesù, di Sandro Carotta)

Rut: la fedeltà dei sentimenti

Il libretto di Rut è, indubbiamente, il più bell’elogio della donna straniera presente nella Bibbia.
Figura splendida questa di Rut! Come Abramo, esce anche lei dalla sua terra, dalla casa di suo padre, dai suoi dèi... Quest’affezione per Noemi si esprime in accoglienza totale del suo popolo e del suo stesso Dio: «il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio».
Come Abramo anche Rut segna un nuovo inizio. Rut, la moabita, la spigolatrice di grano nei campi di Booz a Betlemme, è l’antenata di David che segna decisamente un nuovo tornante nella storia d’Israele. L’augurio del tutto speciale che le autorità e il popolo di Betlemme rivolgono a Noemi in occasione del matrimonio di Rut è che questa straniera possa «costruire la casa d’Israele» al pari di Lia e Rachele e di Tamar: «Il Signore renda la donna, che entra in casa tua, come Rachele e Lia, le due donne che fondarono la casa d’Israele... La tua casa sia come la casa di Perez, che Tamar partorì a Giuda, grazie alla posterità che il Signore ti darà da questa giovane!» (Rt 4,11-12).

La pietra rigettata è diventata testata d’angolo

I moabiti, cui appartenevano Orpa e Rut, erano una popolazione che abitava ad oriente del Mar Morto: un piccolo popolo con un piccolo stato. Con questa popolazione i rapporti degli ebrei non sono sempre stati amichevoli: inizialmente, quando gli israeliti avevano solo pochi insediamenti al di là del Giordano, fra i due popoli c’erano condizioni quasi di pace, ma poi, con l’estendersi delle terre della tribù di Gad, una delle tribù d’Israele, i rapporti divennero tesi, segnati da continui scontri.
Nella Bibbia, poi, i moabiti sono fatti segno di particolare disprezzo: nel capitolo 19, vv. 30-38 del libro della Genesi si parla dell’origine dei moabiti e degli ammoniti dall’unione incestuosa delle due figlie di Lot con il loro padre.
Nei libro dei Numeri (25, 1ss.) si ricorda come le donne moabite avessero spinto gli israeliti verso l’idolatria: “Israele si stabilì a Sittim e il popolo cominciò a trescare con le figlie di Moab. Esse invitarono il popolo ai sacrifici offerti ai loro dei; il popolo mangiò e si prostrò davanti ai loro dei. Israele aderì al culto di Baal-Peor e l’ira del Signore si accese contro Israele.” E l’ostilità nei confronti dei moabiti (e degli ammoniti) si era trasformata in una precisa disposizione di legge: “L’ammonita e il moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore; non vi entreranno mai perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino quando uscivate dall’Egitto e perché hanno prezzolato contro di te Balaam, figlio di Beor, da Petor nel paese dei due fiumi, perché ti maledicesse (si veda la storia di Balaam in Nm 22-24).” (Dt 23, 4-5).

E’ chiaro che, se i rapporti fra moabiti e israeliti erano di questo tipo, anche la storia di Rut, oltre a quella di Tamar, assume un’importanza particolare: Rut, secondo la legge, non avrebbe potuto far parte del popolo eletto. Oltre a sottolineare, come faremo, il motivo universalistico presente nel libro di Rut, l’insistenza sull’origine della donna dalla terra di Moab può essere letta, in un’ottica storica, in duplice modo:

·        da una parte si può sostenere, come fanno alcuni, che proponendo la figura della straniera Rut come esemplare, si vuole reagire alle critiche mosse alle origini moabitiche (e quindi straniere) della casa reale di Davide (il libro potrebbe essere stato composto, perciò, nell’epoca regia)
·        dall’altra si potrebbe vedere una critica al divieto dei matrimoni misti da parte di Esdra e Neemia (anche in questo caso quest’elemento potrebbe essere la base per la datazione del libro).

Il racconto comincia con una importante annotazione temporale: «Al tempo in cui governavano i giudici…». La storia viene collocata nel tempo che va dall’insediamento delle tribù di Israele in Canaan all’istituzione della monarchia. Prima che governassero i re Israele viveva distinto in tribù legate tra loro da un patto. Non esisteva uno stato, e dunque non c’era un governo centralizzato, un esercito permanente, né tasse da pagare per mantenere tutto questo (c’era solo la “decima”). Non c’era il latifondo, e perciò era assai contenuto il divario tra ricchi e poveri. Nessuno doveva vendersi schiavo per far fronte ai debiti… Non c’era tutto questo, o almeno così si pensava qualche secolo dopo... In questo senso, e soprattutto dopo l’esilio babilonese, questo tempo diventa in fretta un tempo «ideale», nel quale il governo del popolo era prima di tutto e soprattutto governo esercitato da Dio stesso. Un capo unico era tollerato soltanto in caso di pericolo e finché durava il pericolo. Ed era Dio a suscitarlo. Allora «sorgeva» un «giudice», guidava in battaglia guerrieri improvvisati provenienti dalle tribù e manteneva la pace fino alla sua morte. Il nomadismo dei patriarchi e il periodo dei giudici saranno considerati paradigmatici soprattutto quando la fine dello stato ebraico sarà definitiva e la maggioranza degli ebrei si troverà ormai a vivere nella diaspora (dispersione), in una condizione di «esilio», o di «migrazione», permanente.

In questo contesto si colloca la storia narrata dal libro di Rut, una storia di ebrei immigrati per bisogno che trovano accoglienza e ai quali viene concesso di risiedere da forestieri in terra straniera. Tuttavia proprio nel momento in cui la vita sembra poter ricominciare, il marito di Noemi muore. Solo dopo la morte del padre i figli prendono in moglie due donne del luogo. La narrazione ci informa che la vita della vedova e dei suoi due figli sposati scorre così per dieci anni. Anche i due figli di Noemi, però, muoiono a breve distanza l’uno dall’altro, lasciando al mondo tre vedove sole e senza figli.

Cosa motiva la solidarietà di Rut per Noemi? Chi la spinge a un impegno tanto oneroso che soltanto una profonda motivazione «religiosa» potrebbe giustificare? Forse Dio? Forse. A leggere il testo è semplicemente l’affetto per una suocera che altrimenti si troverebbe sola, a motivare il cammino pieno di incognite di Rut al fianco di Noemi. Rut accetta una itineranza senza certezze e gravida di rischi, per restare attaccata a chi ama e si trova in difficoltà. Troverà anche un popolo, e perfino un Dio. Ma solo perché vuole restare attaccata a Noemi. Ormai il destino della suocera la riguarda. Rut ha lasciato la casa di sua madre e non vuole ritornare sui suoi passi perché probabilmente quell’esodo ha rappresentato per lei una emancipazione importante. E questa emancipazione la vediamo all’opera: nessuno potrà più decidere al suo posto a chi legarsi e perché.
  
Rut la straniera.

            A Betlemme le nostre trovano il pane, ma la vita è dura per due donne sole e perciò povere. Di fatto l’impegno che Rut ha preso con Noemi la porta a fare la serva per garantire a entrambe la sopravvivenza.
Per fortuna la legislazione ebraica (non sappiamo quanto rispettata, ma a giudicare dalle invettive dei profeti e dalle preoccupazioni dello stesso Booz assai poco) chiedeva che nel momento della mietitura si avesse attenzione per i poveri evitando di tagliare tutte le spighe e anzi lasciandone cadere alcune perché fossero raccolte da chi non aveva nulla. Così Rut si ritrova al seguito dei mietitori a spigolare. Inevitabile che attiri l’attenzione: è straniera. Ma di solito si tratta di una attenzione sospettosa, quando non francamente ostile. Oppure di un’attenzione molesta: è una donna ancora giovane, senza difesa; e si trova a lavorare in mezzo a giovani uomini. Qui invece il padrone del campo ha per lei delicatezze che né lei né noi ci aspetteremmo (Rut2,4-10).
            La domanda finale di Rut a Booz esprime insieme la fatica dello straniero e la sua sorpresa per un’accoglienza insperata. Si tratta di una accoglienza della persona e non solo della sua utilità per la società.
«Trovare grazia» nell’AT vuol dire essere trovati belli, interessanti, preziosi per se stessi, al di là delle categorie con le quali ci cataloghiamo a vicenda (stranieri, nemici, malati, peccatori, donna/uomo, ricchi/poveri, ecc.) e che tutti sperimentiamo essere barriere il più delle volte insuperabili. Anche Rut pensa di non poter essere vista che come una straniera. Perciò è stupita (e forse anche un po’ sospettosa) perché Booz fa mostra di vedere nella moabita una persona, una «figlia», e se ne prende cura. Cosa ha visto di bello in lei?
            La bellezza che Booz ha visto e apprezza in Rut (Rut 2,11-12) è niente meno che la bellezza che  dovrebbe brillare al centro dell’esperienza del popolo eletto: Rut ha lasciato padre, madre e patria (come Abramo) e lo ha fatto per amore della sua suocera. Questo attaccamento l’ha condotta da straniera presso un popolo straniero. Ora si è umilmente piegata a fare la serva per garantire la sopravvivenza a Noemi e a se stessa. In lei brilla un «segreto» che la rende «giusta». E Booz le svela quale sia questo segreto: una così non può che essere gradita al Signore, Dio di Israele, ed è sotto la sua protezione come e anche più di qualsiasi altro ebreo. Rut vive nella comunione con il Dio delle vedove, degli orfani e dei forestieri senza saperlo. Ora, presso Israele, può venire a conoscere Colui che già aveva incontrato senza saperlo.
            Ci troviamo qui davanti a una «figura» già vista altrove nella Bibbia: lo straniero viene a volte incontrato come realizzatore della volontà di Dio pur senza conoscere e possedere tutto quello che invece hanno i «credenti». E’ perciò uno che ha trovato grazia agli occhi di Dio e che ora deve essere visto come un fratello/sorella esemplare. Il problema per i «credenti» sarà allora quello di controllare il risentimento (“come può uno/una così essere come noi e meglio di noi?”) per non perdere l’occasione di un riconoscimento che allarga la fraternità e rivela un aspetto del volto Dio che non potrebbe essere rivelato altrimenti. In questo riconoscimento consiste la giustizia di Booz. La giustizia del credente non sta solo  nella sua santità personale ma nella capacità di riconoscere e additare ad altri la giustizia che vede «fuori» – anche là dove secondo i nostri schemi morali, religiosi, culturali, ecc. non dovrebbe essere – attestando così la grandezza di un Dio che supera ogni confine in nome della vita. Straniero per tutti, anche per chi lo «conosce» dall’infanzia, Dio è prossimo a tutti e si rivela tra coloro che si accolgono nella diversità. In questa esperienza di una radicale fraternità degli umani brilla il volto del Dio datore di vita: egli è Padre di tutti, ha cura della vita di tutti.
            L’esemplarità di Rut non è dunque soltanto un espediente per istruire Israele, che ormai vive nella diaspora straniero fra stranieri, ad avere sentimenti positivi nei confronti dell’esperienza di alterità. Qui il credente deve accogliere nel suo orizzonte teologico, morale, spirituale, uno «di fuori», un «forestiero» che gli è maestro e che inevitabilmente decostruisce, dilata e a volte rivoluziona (non senza ovvie resistenze) la sua visione di sé, degli altri e soprattutto di Dio.
            L’elezione di Israele (della chiesa) è messa alla prova dalla constatazione che questa «giustizia» accade anche «fuori». Messa alla prova, però, non per essere negata, bensì per venire alla piena verità di sé: l’eletto che incontra un giusto ritrova il senso profondo e la verità della sua stessa elezione. Non siamo stati scelti per distinguerci/separarci dagli altri; siamo stati eletti per riconoscere e diffondere benedizione ovunque. E chiunque mostri di essere nella benedizione, trova con sua sorpresa «grazia ai nostri occhi» perché anche se non è dei nostri è nell’alleanza; perfino senza saperlo. In questo riconoscimento e in questa accoglienza il volto di Dio viene sottratto alla chiusura e alla meschinità di chi pensa di riconoscerlo solo nella cerchia dei suoi.

 Cura e dono di sé

            Approfittando della benevolenza di Booz e del fatto che è parente alla lontana e dunque può essere colui che si prende la briga di onorare la legge del levirato, Noemi stende le sue trame per farlo capitolare. Rut deve sedurlo, in modo che l’uomo non possa sottrarsi alle sue responsabilità.
 Anche in questo caso Rut si comporta secondo una onestà che supera quella di Noemi e che incanta Booz. Non approfitta del momento di debolezza dell’uomo come fecero le figlie di Lot o come fece Tamar. Esplicita il suo desiderio con franchezza esponendosi così ad un eventuale rifiuto.
            Se ora Rut accoglie il progetto di Noemi lo fa perché esso porterebbe beneficio anche alla suocera. Certo Booz capisce tutto questo: sa che Rut non è attratta da lui perché ne è innamorata ma perché cerca protezione per sé e per la suocera. Ed è proprio questo a conquistarlo: sapendosi vecchio e apprezzando di non essere stato imbrogliato, comprende che Rut lo rispetta perché è stato buono con lei. E alla bontà riconosciuta in lei la prima volta, ora Booz aggiunge il riconoscimento di questo secondo atto di bontà. La cura per l’altro nasce dalla bontà.
  
Quello che resta è benedizione per tutti.

L’epilogo della storia è un’apoteosi, inserita in un quadro del tutto comune. Mossa dalla fame di pane, la vicenda si è dispiegata in un paesino della Giudea sulla spinta della sopravvivenza. L’itineranza rischiosa e servizievole della moabita che «non si stacca» approda ora alla sistemazione più comune: un matrimonio, dei figli …
     Noemi ha finalmente un nuovo figlio e una nuova famiglia che si prenderà cura di lei. Rut diviene madre e suo figlio sarà il nonno di Davide, il modello del Messia di Israele. Il popolo acclama Rut, la figlia-sorella, come nuova matriarca al pari di Lia e Rachele. E di lì a qualche secolo questa moabita comparirà nella genealogia di Gesù di Nazareth. Nell’amore, cioè in Dio, c’è speranza che vi sia benedizione per tutti. Questa è la speranza del credente, insegnata dalla storia di una straniera.
  
Rut ha avuto molte doti, ma quella emergente è stata la sua misericordia (hésed) verso Noemi. Nella Bibbia questa parola serve per esprimere la misericordia di Dio, perciò possiamo paragonare il suo atteggiamento a quello di un Dio sensibile all’emarginazione degli stranieri, alla solitudine delle vedove ed alle sofferenze dei poveri.

-  o  O  o  -

BETSABEA:
LA BELLEZZA AL SERVIZIO DEL POTERE
-       bellezza e intrighi – pentimento e coraggio -

«A fianco di Davide ci fu una donna che, benché modesta di nascita, gli fu pari nel bene e nel male e, proprio in questo, non meno contraddittoria del suo consorte: Betsabea, la madre di Salomone, che ella mise sul trono come successore di Davide, passando sopra i cadaveri di tutti i suoi possibili concorrenti nelle successione». Così E. Drewermann descrive Betsabea, una donna che non solo tradì il marito ma lo fece uccidere dal suo amante, il re Davide.

La storia di Betsabea è narrata nel secondo libro di Samuele (11,1-12,23 – adulterio e assassinato di Uria) e nel primo libro dei Re (1,11- 53 – scelta di Salomone come successore di Davide).

Qualche autore, leggendo tra le righe e interrogandosi sul racconto, si è chiesto se non fosse stata proprio Betsabea a voler sedurre il re secondo un piano ben preciso, più che Davide ad aver ceduto alla concupiscenza.
Con il fascino della sua bellezza, più che vittima della passione di Davide ne sarebbe stata allora l'artefice. Sono supposizioni che il testo non conferma né smentisce. È certo però che quando vedrà in pericolo la successione regale, forte del suo ascendente sul vecchio re, Betsabea farà sì che non Adonia ma Salomone sia designato ufficialmente a succedere a Davide. La sua bellezza è al servizio del potere.
Ciò che sconcerta in questa storia, difficile da accettare, è che Mikal, la prima moglie di Davide, era stata ripudiata da Dio a causa del suo atteggiamento sprezzante verso il re (cf 2 Sam 6,1-23), mentre Betsabea, la peccatrice, sulla cui coscienza grava un grande peccato, viene scelta per dare al re un successore, Salomone. Questo figlio, che esce da viscere contorte dal peccato, sarà amato da Dio ed edificherà il tempio, luogo della presenza di JHWH tra il suo popolo.

Il disegno di Dio si compie all'interno di una storia attraversata dal sangue, procede tra purificazioni e pentimenti. Betsabea, donna della colpa, certamente, ma anche donna riscattata tramite il pentimento di Davide, che la inserisce nientemeno che nell'albero genealogico di Gesù Cristo. (cf. Cinque donne alla culla di Gesù, di Sandro Carotta)


Betsabea: la moglie dello straniero ucciso

La vicenda di Betsabea è raccontata in 2 Sam 11,1-12,24.
Delle quattro donne dell’albero genealogico è l’unica di cui l’evangelista tace il nome; la introduce come moglie di Uria, lo straniero ucciso.

Alla figura di Betsabea si associano immediatamente due cose: la straordinaria bellezza e il peccato di adulterio. Ma il racconto di 2 Sam mostra come Betsabea sia piuttosto passiva e il peccato sia anzitutto di David, cosa che del resto egli stesso riconosce nel suo miserere: «nella tua grande misericordia cancella il mio peccato». Betsabea è la bella signora che il re può permettersi di prendere per soddisfare le proprie voglie: «David mandò messaggeri a prenderla» (11,4).

Le prime parole che il narratore mette in bocca a Betsabea riguardano la vita concepita nel suo grembo: «sono incinta» (2 Sam 11,5). Sono anche le sue uniche parole in questo racconto. Ad esse seguiranno soltanto le lacrime: per la morte di Uria, suo marito (2 Sam 11,26) e per quella del bambino.

Ma Dio, straordinariamente grande nel perdono, sceglierà proprio questa donna per dare continuità al trono di David. Il Signore amò Salomone, il secondo figlio di Betsabea, e mandò il profeta Natan che lo chiamò Iedidià, che significa «amato da Jahweh» (vedi 2 Sam 12,24-25). Ciò non toglie che in seguito Betsabea abbia dato una mano al Signore per convincere David sull’opportunità di preferire tra tutti il suo figlio... è donna abile, che sa allearsi con le persone giuste e avere presa sul cuore del re (vedi 1 Re 1,11-31).

Per chiarire il panorama delle 4 donne

L’elemento che accomuna le quattro donne della genealogia non è il peccato ma il fatto della elezione. Esse sono vasi di elezione di cui Dio si è servito per portare a compimento in modo insolito la sua volontà. Dio si riserva la sua libertà!
Tamar, Rahab e Rut sono introdotte per disegno divino nella grande promessa. Queste donne straniere che l’evangelista Matteo menziona nell’albero genealogico di Gesù, ricordano che nelle vene del Cristo non scorre soltanto sangue ebreo... Lo ha compreso molto bene Lutero che a proposito di Tamar, da lui ritenuta cananea, commenta: «E in tal modo il Cristo partecipa del sangue dei cananei, e il suo corpo se lo plasma dal seme di Abramo e di Cam o Canaan - questo, per dichiarare fin dal principio che non rifiuta le genti: tanto è vero che le ha accolte e si è degnato di assumerle nella sua stessa persona» (In Genesin enarrationes, WA 44, 314).

La storia di Betsabea, la moglie di Urìa l’hittita

            La quarta donna straniera di cui si parla nella genealogia di Gesù all’inizio del Vangelo di Matteo è Betsabea, che viene indicata come la moglie di Urìa; dall’unione della donna con il re Davide nascerà Salomone.
La vicenda di Davide e di Betsabea è contenuta nel Secondo libro di Samuele (capp. 11- 12):

  • Davide, passeggiando sulla terrazza del reggia, vede una donna molto bella che sta facendo il bagno; gli viene detto che è “Betsabea, figlia di Eliàm, moglie di Urìa l’hittita” (probabilmente un mercenario al soldo del re);
  • Davide la manda a prendere e concepisce un figlio con lei;
  • venuto a sapere che la donna è incinta, Davide fa chiamare Urìa, gli chiede notizie della guerra e lo rimanda a casa sua, ma Urìa non accetta di entrare nella sua casa perché non vuole mangiare e bere e dormire con sua moglie, mentre gli altri soldati sono accampati in aperta campagna;
  • Davide, allora, lo rimanda al suo comandante con una lettera in cui lo invita a far mettere Urìa in prima fila e a lasciarlo morire in combattimento;
  • giunge a Gerusalemme la notizia della morte di Urìa in combattimento; Betsabea, passati i giorni del lutto, viene accolta nella casa di Davide, diventa sua moglie e gli dà un figlio;
  • il profeta Natan viene mandato da Dio a Davide per rimproverarlo di quanto ha commesso e per annunciargli le sventure che lo colpiranno come castigo delle sue colpe;
  • Davide chiede perdono e il perdono gli viene concesso, ma il bambino muore;
  • Davide ha un secondo figlio da Betsabea, Salomone, che Natan chiama Iedidà (“amato da Jahve”) e che salirà sul trono del padre a preferenza degli altri figli di Davide.

Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad una donna straniera, la moglie di un hittita, che, per quanto non sia esplicitamente detto, possiamo pensare hittita anch’essa. Del resto la legge impediva che le donne israelite sposassero gli stranieri, in particolare gli hittiti, considerati nemici da sterminare.  Si dice, infatti, in Deuteronomio 7, 1- 6:  “Quando il Signore tuo Dio ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni: gli hittiti, i gergesei, gli amorrei, i perizziti, gli evei, i cananei e i gebusei, sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio; non farai con esse alleanza né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farli servire a déi stranieri, e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe. Ma voi vi comporterete con loro così: demolirete i loro altari, spezzerete le loro stele, taglierete i loro pali sacri, brucerete nel fuoco i loro idoli. Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra.”

Salomone, quindi, il re saggio, colui che Davide sceglie, a preferenza degli altri figli perché segga sul suo trono (anche se la Bibbia parla di un intrigo orchestrato da Betsabea e dal profeta Natan contro Adonia, ricordando gli scontri fra i diversi sostenitori dei possibili eredi del re), colui che Davide fa ungere re dal sacerdote Sadòc e dal profeta Natan prima della sua morte, colui a cui, in punto di morte, raccomanda di “osservare la legge del Signore, procedendo nelle sue vie ed eseguendo i suoi statuti, i suoi comandi, i suoi decreti e le sue prescrizioni, come sta scritto nella legge di Mosè” (1Re 2, 3), è in realtà figlio di un’unione che, dal punto di vista legale, sarebbe del tutto illegittima e impossibile. Non è, in altre parole, un israelita “puro”: nelle sue vene scorre il sangue dello straniero, del nemico.

Lo straniero nella Bibbia

            A questo punto è bene fare una riflessione sullo “straniero”.
            Abbiamo incontrato, leggendo qualche passo della Bibbia, numerosi popoli stranieri che, quasi sempre, vengono indicati nel modo più negativo possibile: sono frutto di unioni incestuose (i moabiti), sono idolatri, non aiutano e accolgono gli israeliti in momenti di particolare difficoltà (gli ammoniti e i moabiti), sono semplicemente nemici, da vincere, distruggere, sterminare. La legge della violenza, propria dell’uomo di ogni tempo, sembra di primo acchito dominare anche la prospettiva della Bibbia o, almeno, dell’Antico Testamento.
In più ritroviamo in molti passi biblici l’eco della preoccupazione di un popolo minoritario che vuole conservare la propria identità, un’identità basata sul rigido monoteismo, in un mondo composito, in cui è il politeismo (la “idolatria”) a dominare.
Il popolo israelitico teme, mescolandosi alle altre popolazioni, di lasciarsi tentare dai costumi e dalle credenze religiose altrui, teme di perdere la propria “unicità”. In questo senso i matrimoni misti, che portano nelle case israelitiche donne che onorano altri dei, sono considerati un male particolarmente grave e sono oggetto di divieto e di esecrazione.

Ma se da una parte troviamo l’idea dello straniero (e della straniera) come nemico, da tenere lontano per non “contaminarsi”, uno straniero visto come pericolo da vincere, sottomettere e, se possibile distruggere, dall’altra ci troviamo di fronte alle quattro figure femminili di cui abbiamo trattato che mettono in crisi questa visione semplicistica dello straniero.
In effetti nella Bibbia lo straniero non viene presentato solo come nemico: è anche l’ospite da accogliere, da introdurre nella propria casa e da rifocillare.
Esemplare, in questo senso è l’episodio ricordato dal libro della Genesi di Abramo che siede davanti alla sua tenda alle Querce di Mambre nell’ora più calda del giorno: “Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra dicendo: “Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che siete passati dal vostro servo.” (Gn 18, 3-5)

Accogliere l’ospite, lo straniero, nel mondo antico è spesso considerato un dovere sacro: l’ospite è protetto da Dio. Per il popolo ebraico diviene addirittura un comando: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19, 18) (alcuni esegeti sostengono che il termine “prossimo” può essere tradotto semplicemente con “straniero”). Del resto il popolo d’Israele ha conosciuto cosa vuol dire essere straniero: l’esperienza della schiavitù d’Egitto, il lungo periodo trascorso da stranieri nella terra del faraone, è uno dei momenti forti della fondazione d’Israele. E, come dice il Deuteronomio: “Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto” (Dt 10, 19)

Ma c’è di più: la condizione di straniero non è legata solo ad un contesto storico e geografico, è in realtà la condizione di ogni uomo. La vita umana è segnata dalla precarietà, dall’essere “straniero”: si può vivere, dunque, solo nell’accoglienza, accoglienza da parte di Dio, accoglienza da parte degli altri. E chi è stato accolto, deve a sua volta accogliere. Dio ha accolto Israele, Israele deve aprirsi all’ “altro”.

Quattro donne straniere: Tamar, Rahab, Rut, Betsabea. Quattro donne straniere sono riuscite a superare lo status di nemico, sono diventate ospiti e poi addirittura parte del popolo eletto.

L’esempio di queste quattro donne potrebbe in primo luogo portarci a riflettere sul fatto che non esistono popolazioni “pure”: la condizione comune dell’umanità è quella dei movimenti di popoli, dei matrimoni, della mescolanza, del meticciato. Si abbandona la terra su cui si è nati per le più diverse situazioni: una guerra, una carestia, un evento naturale, il desiderio di una vita migliore,... Si arriva in un paese straniero in cui dapprima si è guardati con sospetto, ma in cui, a poco a poco, ci si inserisce. Ci si sposa, si hanno figli,... Gradualmente si diventa parte di una realtà diversa. Le migrazioni continuano lungo tutta la storia, e noi italiani ne abbiamo una particolare esperienza.

Se torniamo all’esempio di Rut, potremmo dire che questa donna è veramente il simbolo di quello che potrebbe essere il percorso dello straniero: Rut parte dalla sua terra per amore di Noemi, ma anche per costruirsi un futuro migliore dal momento che nelle campagne di Moab imperversa la carestia e a Betlemme, invece, c’è cibo in abbondanza. Rut va a cercare un lavoro, un lavoro umile come quello di spigolatrice nel campo di Booz per provvedere il necessario per se stessa e per la suocera. Rut trova solidarietà in Booz che riconosce il grande cuore della donna e la invita a mangiare con lui: la partecipazione alla mensa comune è un segno di accoglienza. E la storia continua con il matrimonio fra Booz e Rut nell’osservanza delle leggi del luogo e con la nascita del figlio, antenato di re.  Il motivo della solidarietà impronta tutto il libro di Rut e diviene l’immagine simbolica della fedeltà di Dio nei confronti degli uomini.

Ma l’esempio di queste quattro donne ci suggerisce qualcosa di più: nel progetto di Dio, sembra indicarci la Bibbia, lo straniero deve diventare ospite e profeta (cioè “colui che parla in nome di Dio”), deve inserirsi nel piano salvifico che è per tutti gli uomini (Tamar  e Rut come antenate da Davide, dalla cui stirpe dovrà nascere il Messia). Lo straniero ha in qualche modo un ruolo privilegiato, da profeta, appunto: deve ricordare ad ogni uomo che anche lui è straniero in questo mondo e che l’apertura all’altro, il rispetto reciproco, la condivisione sono momenti essenziali dell’esistenza umana.

Nel mondo in cui viviamo, lo straniero ci ricorda in ogni momento che il progetto di Dio non è quello della ricchezza per pochi e della fame, della malattia, della morte per altri; che un mondo in cui le sperequazioni economiche e sociali sono insostenibili non può essere lo scopo ultimo dell’azione della maggior parte degli uomini nei “paesi ricchi”; che chi scompare nel canale di Sicilia durante uno dei viaggi della speranza non è diverso da noi, se non perché noi abbiamo ricevuto di più (e dovremo, di quanto abbiamo, ricevuto rendere conto); che il mondo in cui viviamo è ben lontano dall’essere “il migliore dei mondi possibile” e che deve, invece, essere profondamente trasformato a misura d’uomo, di tutti gli uomini.
Anche oggi, quindi, lo straniero è profeta per chi sa ascoltare la sua voce al di là del qualunquismo della gente comune e dei media che molto spesso vedono nello straniero il “nemico”, quello che viene da noi per portare via il lavoro agli italiani (secondo l’opinione più favorevole all’immigrazione) oppure per commettere ogni sorta di reato e di delitto, imponendo per di più la propria visione religiosa e culturale (basti leggere certi giornali o ascoltare certe trasmissioni radiofoniche  in cui, al di là del pressappochismo e dell’ignoranza, domina la “paura” irrazionale di perdere i propri “privilegi” e la propria identità).

Se si torna alla Bibbia, invece, il rapporto con lo straniero acquista una dimensione diversa: Tamar, Rahab, Rut e Betsabea ci hanno insegnato che lo straniero non è affatto un nemico, è invece uno di noi. Tutti siamo, in qualche modo, stranieri. Tutti siamo in viaggio e tutti viviamo di ospitalità, di solidarietà. Per quanto il mondo sia malvagio, è possibile e doveroso prendere da esso le distanze e creare uno spazio di pace e di bontà.

 Dobbiamo riconoscere che la terra è di Dio, tutti gli uomini vi passano, vi faticano, vi migrano, vi dimorano, vi mangiano, vi riposano, senza mai poter avere delle esclusive, senza mai accaparrarsene un fazzoletto, senza mai dire: questo è mio. Ma, specialmente, senza mai poter pensare di viverci da soli.

Betsabea: da straniera e adultera a moglie e madre importante per il popolo d’Israele.

« Iesse generò il re Davide; il re Davide generò Salomone
da quella che era stata la moglie di Uria. » (Mt 1,6)
 
La perifrasi "quella che era stata la moglie di Uria" (Mt 1,6) non è un eufemismo studiato da Matteo, ma ha i suoi precedenti nei racconti di 2Sam 11-12, e richiama l'attenzione sulla circostanza che Betsabea non era destinata a iscriversi tra gli antenati del Messia.
Divenuta sposa di Davide e con la vigile protezione di Natan, assicura la successione regale in Salomone, il figlio sapiente e caro a Dio.
Il suo ruolo, insieme con quello di Natan, è determinante per far sì che il piano divino della successione al trono sia rispettato. Una volta diventata ufficialmente moglie di Davide e occupato il posto di centro nella corte assume il ruolo di regina madre che nelle corti del Vicino Oriente Antico ed anche in Israele avevano un influsso non facilmente quantificabile nella gestione politica.
            A Matteo non dovettero sfuggire questi dati. La scelta di Salomone, secondo i canoni delle successioni dinastiche, è una scelta anomala, ma è secondo il piano di Dio e si porta via l'insieme delle promesse messianiche.

Il coraggio di Betsabea vale il trono a Salomone

Se Davide si rende conto che il suo agire verso Uria fu di tradimento, adulterio e omicidio, ma verso Betsabea di seduzione e amore, quale è il ruolo di Betsabea nel piano di Dio?

Umanamente Betsabea sembra scomparire tra l’atteggiamento peccaminoso e negativo di Davide e la fedeltà di Uria, l’hittita, al suo matrimonio con Betsabea, a Davide suo re, al Joab suo generale e ai suoi commilitoni.

Betsabea al bagno è stata la gioia dei pittori, ma non certo dei predicatori, compreso il profeta Natan. Il pericolo è di lasciarsi ipnotizzare dalla bellezza seducente, mentre Betsabea è molto di più: essa genera Salomone che concentra su di sé l’amore preferenziale di Davide e di Dio, come lo definirà il profeta Natan. In un momento cruciale per la regalità, Betsabea ri-genera Salomone come Re. Solo intrigo di corte o un piano misterioso che segnerà la storia di Israele, l’amato di Dio?

Nella veglia pasquale la Chiesa osa dire: “o felix culpa” che ci hai meritato un così grande salvatore. Il pensiero percorre la storia segnata dal peccato, da Adamo a noi. In questo arco di tempo appare la figura particolare di Davide che rinasce dalla sua colpa e fissa per l’umanità questo riscatto con il Salmo 50 (51) il più sentito e profondo di tutto il salterio, il Miserere. Davide ci fa vedere fin dove può giungere l’abisso del peccato, ma non si ferma nell’abisso. Domanda a Dio di essere perdonato “per la sua grande misericordia”. Davide umiliato diventa più umano. Nel suo sentirsi perdonato e riscattato Davide porta con sé il mistero di quella donna che da “sedotta o seduttrice” (Betsabea) nell’unica frase che pronuncia per Davide definisce la sua realtà di madre: “sono incinta”. Come l’umanità peccatrice, come l’Israele sposa continuamente adultera, Betsabea porta nelle sue viscere il suo redentore e il desiderio di riscatto.
E il figlio Salomone, concepito da un contorto ma anche sincero amore umano, troverà l’ispirazione divina per scrivere (o far scrivere) il più sublime libretto d’amore: il cantico dei cantici. (vedi appendice)
“Il paragone profetico dell’amore di Dio per Israele con l’amore di uno sposo verso la sposa, poté essere concepito perché vi era una società in cui la moglie era rispettata ed occupava un posto importante.  Nella Bibbia l’amore viene definito con termini assoluti è: una passione profonda ed ardente, richiede fedeltà, fermezza di fronte alle tentazioni, sostegno nelle avversità ed è talmente forte da esprimere allo stesso tempo ardore e castità.
Parlando del matrimonio e della famiglia, la figura femminile viene recuperata come persona e valorizzata. L’uomo è obbligato a sposarsi dalla religione ebraica, la donna no, anche se poi di fatto lo desidera per diventare madre. La sposa avendo la responsabilità dei figli e della casa, non può seguire tutti i precetti (mizvot ), perciò la Torah ( i primi 5 libri della Bibbia) la dispensa da un certo numero di norme, specialmente da quelle relative al culto. La capacità di procreare la rende forte perché è portatrice di nuove vite e necessariamente custode ed in parte arbitra della continuità di Israele. Da lei dipende la prosperità del popolo ebraico. E’ suo il compito di generare tanti figli, i quali hanno l’obbligo di rispettare in egual modo sia la madre che il padre (Es 20,12; Lv 19,3; Dt 5,16)”.
Betsabea si riscatta per il figlio Salomone e la sua discendenza. Ha salvato la discendenza di Davide non così “pura” come razza ebraica, ma razza puramente umana. Dalla sua discendenza è nato il Cristo, il figlio di Dio.

Per la nostra personale riflessione:
Due donne, due mondi: Rut il mondo rurale, popolare, di fede in Dio nel quotidiano, Betsabea, il mondo del potere, il mondo degli intrighi il mondo dei responsabili. Dai due mondi Dio fa convergere la fede nell’opera di Dio, misteriosa quanto il cuore umano la può intuire, ma aperta, misericordiosa, creativa.
1. Cosa imparare da Rut?
2. Cosa imparare da Betsabea?
A cura di Fr. Lino Da Campo
Pecetto, 6 dicembre 2011



ICONA CANTICO DEI CANTICI
L’icona rappresenta il Cantico dei Cantici, celebrazione sacra dell’amore umano, espressione più alta dell’amore di Dio per l’umanità.
Sul margine inferiore dell’icona è riportato un versetto del Cantico dei Cantici, che può offrire una chiave di interpretazione. Esso recita così: “Sub arbore malo suscitavi te; ibi corrupta est mater tua, ibi violata est genitrix tua” (trad. italiana: “sotto un albero di melo ti ho svegliata, nel luogo stesso dove tua madre ti concepì, dove tua madre perse la sua verginità”.

L’icona, pur nella sua semplicità, richiama una simbologia ricchissima di temi umani e teologici.
E’ una scena di risveglio, di stupore, di incontro amoroso, come da sempre miti e fiabe amano raccontare la nascita della conoscenza e dell’amore.
Personaggi e contesto rimandano facilmente lo spettatore intriso di conoscenze bibliche, ai racconti della creazione dell’uomo e di altri eventi significativi della storia della Salvezza.
Il gesto del giovane che solleva da terra l’amata, riprende il movimento creatore del Dio della Genesi secondo un modulo tipico della rappresentazione sacra (vedi, per es., la Creazione dell’uomo in Michelangelo), ma in una situazione completamente nuova: al posto di Adamo è ora la donna la creatura che riceve l’alito divino che la trasforma in essere vivente (Gn 2, 7). Il melo di cui parla il Cantico dei Cantici, congiunge insieme il simbolo dell’albero che era in mezzo al giardino dell’Eden e quello dell’albero della Croce: testimoni entrambi di una lacerazione da cui comunque è sgorgata come dono dell’amore fedele di Dio una vita nuova e libera.
I colori del giovane sono quelli che, secondo la tradizione iconografica, caratterizzano la figura di Gesù: il rosso, simbolo della natura umana, e il blu colore della profondità divina.
La sposa, invece, indossa una veste dai colori tenui come “aurora che sorge”, a significare l’emergere graduale della consapevolezza.
La coppia di cervi in corsa sullo sfondo dei monti allude alla rapidità dell’amore sempre anelante e vittorioso.

MONASTERO SERVE DI MARIA Via Mantova 11 - 38062 ARCO (TN) –
E-mail: monastero@lillinet.org - C.C.P. 17165382

Nessun commento:

Posta un commento