lunedì 6 maggio 2013

Decalogo. “Io sono il Signore Dio tuo”, inizia così il buon cammino

di Armando Torno, Corriere della Sera, 4.5.13

Il primo imperativo del Decalogo fonda la via della salvezza
 
Tavole della Legge, Comandamenti, Decalogo: sono espressioni diverse per indicare i precetti che Mosè ricevette sul Sinai, base dell'alleanza tra Dio e Israele. Il termine più usato in dizionari e repertori, Decalogo, in greco significa dieci (déka) parole (lógos). Una consuetudine, accettata anche se non filologicamente ineccepibile, ama tradurlo con la locuzione «I Dieci Comandamenti»; tuttavia una ragione c'è, e va cercata nel fatto che in ebraico «parola», davar, è sinonimo di comandamento. Mosè rimase «con il Signore quaranta giorni e quaranta notti senza mangiar pane e senza bere acqua» (Esodo 34,28). Oggi sono considerati riferimenti giuridici ed etici, oltre che religiosi; costituiscono il codice morale di gran parte dell'umanità. O, per dirla con Hermann Cohen, fondatore della scuola di Marburgo e figura di spicco del neokantismo, si possono intendere come una sorta di equazione assoluta donata all'uomo (in Scritti ebraici, Berlino 1924). Nella Bibbia si trovano due versioni con lievi varianti delle «dieci parole». Si leggono nell'Esodo (20,1-17) e nel Deuteronomio (5,6-21).
La tradizione cattolica nel presentarle si discosta da ebrei ed evangelici. Già Agostino operò una distinzione nel Decalogo che lasciò una duratura traccia: divise i tre Comandamenti iniziali dai successivi sette, attribuendo ai primi i doveri verso Dio e ai successivi quelli verso gli uomini. Ma tali considerazioni continuarono per secoli. Per offrirne un esempio, diremo che un filosofo e teologo quale Duns Scoto, il Doctor Subtilis morto a Colonia nel 1308, sostiene che i Comandamenti della seconda tavola, ovvero dal quarto al decimo, non si dovrebbero ritenere inerenti alla legge naturale (in Reportata parisiensa; ribadisce in Scriptus Oxoniense). Di contro Tommaso d'Aquino, che affronta l'argomento nella Summa Theologiae, è convinto che tutti i precetti del Decalogo appartengano alla legge di natura. La trascrizione del testo delle Tavole riportato nei catechismi cattolici è frutto di interventi maturati nel tempo. Significativo è il contributo di Alfonso Maria de' Liguori e l'influenza che esercitò dal XVIII secolo. Il santo partenopeo intese i Comandamenti come il sommario della teologia morale: per tale motivo cercò di compendiare in ogni proposizione un aspetto di vita. Il caso più evidente è nel sesto precetto, «non commettere adulterio»; egli preferì il più ampio «non commettere atti impuri». Sant'Alfonso desiderava investire tutta la sessualità. Lui stesso, d'altra parte, osservò regole rigidissime per trattare codesta materia: è noto che le pagine sulla morale matrimoniale, presenti nella sua opera, le vergò in ginocchio per non cadere in tentazione. Si può affermare che ogni epoca abbia bisogno di ripensare e far rivivere nel proprio tempo i Comandamenti. Gianantonio Borgonovo, biblista e autore del saggio Torah e storiografie dell'Antico Testamento (Elledici 2012), ci confidava a proposito delle attuali riletture: «La ripresa di queste riflessioni trova significato nel valore di mitzwà, ovvero una tensione di mezzo tra l'amore di Dio che precede ("Io sono il Signore Dio tuo che ti ha fatto uscire dalla terra d'Egitto, dalla casa degli schiavi...") e l'amore che segue il Comandamento stesso e che diventa legge, sentenza, decreto». Per questo ebraista il Decalogo ha in sé una sorta di energia infinita, che «da una parte va all'originaria rivelazione del Sinai (Horeb) e dall'altra chiede di essere ogni volta attualizzata nell'oggi». Ora tornano in distribuzione I Comandamenti editi dal 2010 (Il Mulino). Sono commentati, chiosati, fatti rivivere da teologi, filosofi, biblisti ma anche da economisti e giuristi (Non rubare, ottavo volume, è trattato da Paolo Prodi e Guido Rossi). Il primo di essi, Io sono il Signore Dio tuo, parole che introducono le Tavole della Legge, è firmato da Piero Coda e Massimo Cacciari. Il percorso tracciato parte dalla semantica del Nome per giungere alle riflessioni sul Deus-Trinitas. Da un lato si esamina, tra l'altro, l'autopresentazione di Dio di Esodo 3,14 «Io sono colui che sono» (ehjeh asher ehjeh), e che Piero Coda mostra nelle diverse interpretazioni non escludendo quella nata dalla versione greca della Bibbia dei Settanta (ego eimi ho on: si potrebbe addirittura tradurre «Io sono l'Essente»); dall'altro ci si chiede chi sia «l'Uno dell'Esodo». In tal caso Massimo Cacciari indica percorsi che aiutano il lettore ad avvicinarsi al «segreto del Nome divino», anche se resta «inafferrabile e ineffabile». «Non interessa tanto il Nome - scrive - ma ciò che l'Essere di Dio può. La sua natura è di essere, non di essere nominato, e di essere ponendo "fuori" di sé tutta la propria potenza». In margine a Coda e Cacciari notiamo che per meglio cogliere il significato della frase «Non avere altri dèi di fronte a me» (Esodo 20,3; Deuteronomio 5,7), il primo ordine di Dio del Decalogo, è consigliabile affidarsi a una considerazione di Martin Buber: «La dottrina della unicità ha la sua ragione vitale non nel fatto che ci si formi un giudizio sul numero di dèi che ci sono e si cerchi magari di verificarlo, bensì nella esclusività che regge il rapporto di fede, come esso regge il vero amore tra uomo e uomo; più esattamente: nel valore e nella capacità totale insiti nel carattere esclusivo... L'unicità nel "monoteismo" non è, dunque, quella di un "esemplare", ma è quella del partner nella relazione interpersonale, finché questa non viene rinnegata nell'insieme della vita vissuta» (Königtum Gottes, Opere II, Monaco di Baviera 1964). Non è dunque avventato credere che il concetto fondamentale espresso da questo primo Comandamento sia di carattere esistenziale: è una scelta radicale che guida la vita. D'altra parte, il suggerimento di Buber ci aiuta a meglio comprendere la traduzione delle parole 'al-panaj, che si potrebbero rendere «oltre a me», «di fronte a me», «al mio fianco», «contro di me», «a mia onta» e altro, portandoci anche lontano dal comando di Dio. Ricordiamo infine che questa serie di commenti alle Tavole della Legge è di undici volumi e non dieci. L'ultimo, Ama il prossimo tuo (Enzo Bianchi e Massimo Cacciari), è dedicato al Comandamento cristiano per eccellenza, già comunque presente nel Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (19,18). Con Cristo diventa la sintesi delle leggi che parlano della relazione con l'altro. Il Vangelo di Giovanni riporta: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (15,12); Paolo, nell'Epistola ai Romani, precisa: «Infatti il precetto: non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: amerai il prossimo tuo come te stesso» (13,9).

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