La teoria ebraica della scrittura “a goccia a goccia”
Non è il caso di meravigliarsi se le Tavole della Legge, ovvero i Dieci Comandamenti, siano stati incisi su pietra. Documenti antichissimi confermano questa usanza anche per altri testi di carattere politico. Una prova? Eccola nel trattato fra Suppiluliumas, re ittita morto intorno al 1320 prima di Cristo, e Mattiuazza di Mitanni (Naharina nei testi egizi: fu un regno situato nel nord della Mesopotamia), dove è detto che una copia della tavola si sarebbe dovuta depositare nel tempio di Samas. Del resto si parlò per buona parte del Novecento delle stele di pietra con sculture e iscrizioni trovate da Sir William M. Flinders Petrie, descritte poi nel suo libro Researches in Sinai, uscito a Londra nel 1906. Il discorso di Mosè che si legge nel Deuteronomio testimonia quel che avvenne: «Quando io salii sul monte a prendere le tavole di pietra, le tavole dell'alleanza che il Signore aveva stabilita con voi, rimasi sul monte quaranta giorni e quaranta notti, senza mangiare pane né bere acqua; il Signore mi diede le due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio, sulle quali stavano tutte le parole che il Signore vi aveva dette sul monte, in mezzo al fuoco, il giorno dell'assemblea» (9, 9-10; oppure Esodo 24,12).
Nel Talmud si trova una domanda: come è stato possibile che Dio abbia inciso la scrittura sulle Tavole della Legge? Una risposta, che passa tra l'altro attraverso un racconto dedicato a Rabbi Akiva - sovente citato come Rosh la-Chakhamim, ovvero Capo di tutti i Saggi, sostenitore della seconda rivolta giudaica, ucciso dall'imperatore Adriano - rammenta che l'acqua, anche se versata a goccia a goccia, può sciogliere la pietra e dare forma a cavità. Immaginiamoci, va aggiunto, le possibilità contenute nella Parola di Dio. Ma tale questione è una delle innumerevoli che si sono poste nei secoli. Per esempio, alcuni commentatori sottolinearono il fatto che la pietra delle Tavole della Legge era talmente preziosa che se Mosè avesse voluto farne commercio sarebbe divenuto l'uomo più ricco della terra. Né mancò chi aggiunse: era zaffiro. Altre questioni si dedicano a ulteriori particolari. Uno dei più celebri commentatori medievali della Bibbia, Rashi, acronimo di Rabbi Shlomo Yitzhaqi (latinizzato in Salomon Isaacides e, tra le dizioni italiane, Salomone Isaccide), riteneva che il versetto dell'Esodo precedente la proclamazione dei Dieci Comandamenti, «Dio allora pronunciò tutte queste parole», fosse proferito in una sola espressione unitaria. Soltanto in seguito, nella medesima occasione, sarebbero stati rivelati uno ad uno. Queste considerazioni si devono porre a margine del testo biblico e riflettono, per così dire, dei tentativi che si sono accumulati lentamente per meglio spiegare quel che accadde e come. Del resto, innumerevoli filosofi ebrei sono intervenuti sull'argomento. Basterà soltanto ricordare che da Moshe ben Maimon, il nostro Maimonide (morto al Cairo nel 1204) a Elia Del Medigo, maestro di ebraico di Pico della Mirandola (scomparso a Candia dopo il 1491) si trovano continue considerazioni sul Decalogo, nelle quali si sottolinea senza requie il fatto che in questo testo condensato è affermata la morale perenne, garantita dal Dio unico. Uno studioso quale Maurice-Ruben Hayoun, specialista di filosofia ebraica e professore a Heidelberg, nell'ampia voce sui Comandamenti che ha scritto per il Dictionnaire d'étique et de philosophie morale (Presses Universitaires de France 1996) notava: «Si è voluto fare del Decalogo una sorta di carta del monoteismo etico presso gli ebrei. Si è anche rilevato che l'unico riferimento al giudaismo è contenuto nella esortazione al rispetto del sabato». D'altra parte ogni epoca ha necessità di meditare sui Comandamenti e di attualizzarne la messa in pratica. L'iniziativa del Corriere della sera, che ripropone la serie di commenti cominciata nel 2010 presso l'editrice Il Mulino e nella quale erano coinvolti teologi, filosofi ma anche economisti e giuristi, è per i nostri giorni (ora esce Non ti farai idolo né immagine con gli interventi di Salvatore Natoli e Pierangelo Sequeri). Alla fine degli anni 80 del secolo scorso, una lettura intelligente per riflettere sul tema la offrirono le dieci storie narrate nel film Decalogo (seguito poi dal numero del Comandamento) di Krzysztof Kieslowski. Per esempio, il primo di essi - a commento di «Io sono il Signore Dio tuo. Non avrai altro Dio fuori di me» - narra la vicenda di un professore di glottologia convinto che tutto sia ragione. Con il suo bimbo calcola al computer fino a dove ci si può spingere con i pattini su un lago ghiacciato; ma poi tutte quelle operazioni si rivelano fasulle, giacché la crosta cede e il ragazzo muore. Con grande semplicità il regista polacco aveva mostrato che nulla a disposizione dell'intelligenza umana è in grado di sostituire Dio. Certo, si sono battute altre vie per illustrare le Tavole della Legge. Quella decisamente oleografica e concepita per un vasto pubblico che forse non aveva nemmeno letto una traduzione del testo biblico, fu il kolossal statunitense del 1956, I Dieci Comandamenti, diretto da Cecil B. DeMille, con Anne Baxter e Yul Brynner nei ruoli di Nefertari e Ramesse; Charlton Heston era un Mosè che anche sul Sinai sembrava appena uscito dal parrucchiere. Eppure, nonostante tutte le licenze e i limiti di una pellicola siffatta, essa lasciò traccia. Non è forse vero che immaginiamo l'Impero romano attraverso le scene di un film come Il Gladiatore? Per tale motivo qualcuno ricorda ancora qualche nota incisiva o carezzevole delle musiche di Elmer Bernstein che aveva il compito di rendere solenni le affermazioni proferite nei momenti topici. Come quando lo stesso Ramesse confessa a Nefertari, al suo ritorno dal Mar Rosso: «Il suo dio... è Dio». Questi antichi precetti sono un punto di riferimento morale per gran parte dell'umanità e anche chi non accetta la rivelazione ne riconosce il valore. Anzi — non allontaniamoci dal cinema, dopo averne ricordato due momenti significativi - lo fa indirettamente, con ironia mista a disprezzo, persino qualche delinquente del grande schermo. Vi ricordate del teppista Malcolm McDowell che legge la Bibbia in carcere? Il film era Arancia meccanica del 1971, diretto da Stanley Kubrick, che causò tra l'altro un infelice giudizio - quasi urlato durante una proiezione - di Salvador Dalì: «Ora ho capito che Beethoven era un criminale!». Nella pellicola c'è una frase del malvivente che preferisce il Primo al Secondo Testamento: «Non mi era mai piaciuta l'ultima parte della Bibbia, perché è quasi tutta predica e non c'è vera lotta, e non c'è più tanto su e giù. A me piacciono le parti in cui quei vecchi ebrei si picchiano di santa ragione, e poi sturano alcune bottiglie di vino israeliano e si infilano a letto con le damigelle delle mogli».
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